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1. Origine e criteri della ricerca: un progetto sulle
fonti della lingua giuridica italiana
La ricerca sulle fonti del linguaggio del diritto italiano era stata concepita in un grande affascinante
disegno[1] molti anni fa quando l’istituto era appena nato: il progetto,
che si chiamò Bibliografia delle edizioni giuridiche antiche in lingua italiana, si propose
lo scopo di registrare tutti i testi che contenessero quel particolare
linguaggio tecnico che è quello giuridico. La ricerca, di cui
furono stabiliti limiti e criteri, fu divisa in due parti: -
la prima parte doveva occuparsi di registrare i testi statutari
e dottrinali, quei testi, cioè, che fossero o di per sé formalmente
normativi (testi statutari) o che fossero totalmente o parzialmente
"giuridici" (testi dottrinali), sempre secondo criteri prestabiliti
[2]
- la seconda parte doveva occuparsi di registrare quella legislazione
principesca preunitaria (e noi abbiamo qui scelto quella dello
Stato di Milano, che sarà affiancata dalla
Legislazione medicea, curata da M. Caso Chimenti e L. Papini) che non rientrasse
nella categoria "statutaria" (corpi legislativi fondamentali
per la loro stessa natura o fisicamente consistenti in quanto
composti di un certo numero di pagine) bensì presentasse il
carattere della occasionalità, che fosse legislazione "minuta"
emanata dalle magistrature in seguito ad esigenze del momento,
legislazione che quasi sempre appariva sotto forma di manifesto
destinato ad essere attaccato sulle piazze "nei luoghi soliti"
e gridato dal pubblico "trombetta" alle persone che gli si affollavano
intorno; quei fogli (bandi, gride, editti, proclami e altro)
che adesso troviamo riuniti in raccolte "fattizie" a volte anche
rilegate da qualche solerte archivista in grossi volumi, purtroppo
a volte un po’ tagliati per renderli tutti uguali come formato,
o piegati malamente ... Non sono state prese in considerazione,
per questa seconda parte, le edizioni che in epoca coeva venivano
fatte per riunire la legislazione per esempio di un certo governante,
cospicua massa di gride, editti e simili emanati dalle magistrature,
per una evidente volontà di riunire, riordinare per quanto possibile,
consolidare una legislazione altrimenti frammentaria e irrecuperabile,
affidata solo alla memoria dei giuristi e dei sudditi, almeno
quella di un certo periodo e renderla il più possibile certa
e conosciuta: la registrazione di questo tipo di legislazione
contenuta in corpose edizioni è rientrata nella prima parte
del progetto.
Inoltre l’idea iniziale sarebbe stata di pubblicare una raccolta
legislativa per ogni antico stato italiano, scegliendo la più
significativa possibile.
Il desiderio era di dare un contributo innovativo al diritto, ripercorrendone nei secoli la storia attraverso il suo lessico
particolare e anche di dare un forte contributo alla lessicografia e agli studi in campo bibliografico.
Il progetto finale mirava a fare un vocabolario giuridico storico[3] che attingesse alle parole trovate nei testi scelti e da esse ricavasse definizioni e significati con uno spoglio che potesse essere realmente esaustivo. Contemporaneamente c’era l’idea di creare bibliografie che attraverso i loro indici e tramite lo strumento informatico guidassero lo studioso nel caotico mondo degli scritti antichi per trovare forse nelle pagine del passato spunti per il futuro. Come abbiamo visto, attraverso gli anni alcuni contributi sono stati da noi realizzati: questo della legislazione milanese potrebbe essere l’ultimo a meno che qualche volenteroso
non voglia continuare il cammino non terminato. |
2. Una raccolta di gride dello Stato di Milano:
bibliografia delle gride "particolari" e lessico delle gride generali
Per la legislazione principesca, dunque, ci siamo occupati di quella dello Stato di Milano[4]
pubblicando in linea una raccolta della Biblioteca Universitaria di Pavia
che già il Del Giudice[5] ha nominato tra le più
importanti ed equilibrate fra le raccolte legislative riguardanti Milano e che si distingue dalle numerose altre esaminate nelle biblioteche milanesi
per la caratteristica di essere stata divisa per materie, o meglio
per magistrature[6]. Il nostro lavoro si divide in due parti: la parte
bibliografica che qui ora pubblichiamo in rete e la parte lessicografica che verrà messa in rete al più presto. La prima contiene i documenti
bibliografici corredati di indici e con i testi delle gride corrispondenti posti come immagine; la seconda conterrà i testi delle "gride generali"
memorizzati e consultabili a full text, la tavola delle frequenze e un piccolo glossario esplicativo delle parole
più significative. La raccolta è composta di 4387 gride ed editti
vari[7]
e non è tuttavia una raccolta completa. Il saggio che abbiamo
fatto pubblicando le gride dei conservatori della sanità confrontandole
con le varie raccolte sparse nelle biblioteche milanesi ci dà
la misura di questa affermazione[8].
Per i criteri, il collegamento con la Bibliografia
delle edizioni giuridiche antiche non si pone come meramente
nominale: i criteri sono gli stessi, anche se il desiderio di
presentare la raccolta completa ci ha spinto oltre i confini datici
da quella: un’omelia priva di contenuto normativo, una piccola
dissertazione dottrinale sulle monete, o alcuni consigli contro
il contagio ... li abbiamo inseriti lo stesso, eliminando invece,
a malincuore ma rigorosamente, i numerosi fogli manoscritti (indici
e gride). |
3. La raccolta e le sue gride
Dicevo che la raccolta
è divisa per magistrature: in questa suddivisione si evidenzia
la peculiarità tipica di quegli anni di una sovrapposizione di
competenze tra una magistratura e l’altra e del trattarsi di una
materia da parte di magistrature diverse secondo angolazioni simili
o diverse. La raccolta è senza dubbio interessante perché "bilanciata":
la maggior parte degli argomenti vi è rappresentata, anche se
con una certa preponderanza della materia fiscale e con l’assenza
di quelle gride contro i "bravi" di manzoniana memoria che ci
aspettavamo di trovare, delle gride contro le meretrici e i banditi
(con l’eccezione per quest’ultimo caso di una convenzione tra
stati diversi) o sulle milizie, sui bargelli, sulle armi e su
chi poteva portarle, sui mendicanti, sugli zingari: mancano insomma
tutte quelle gride inerenti alla funzione di polizia così come
era intesa in quei tempi. Sui mendicanti troviamo quelle del tribunale
di sanità ma il motivo igienico che le determinava era senza dubbio
diverso da quello di ordine pubblico. Le gride della raccolta dovremmo forse guardarle da osservatori,
curiosi di una vita che non è più la nostra: esse ci appaiono come un magnifico affresco illustrativo di tutte
le possibili sfaccettature di una società varia e composita come quella milanese attraverso i due secoli e mezzo
in cui lo stato sotto il predominio prima spagnolo e poi austriaco sempre cercò di salvaguardare le proprie istituzioni,
la propria identità, la propria vita. Si tratta di una raccolta di leggi, certo, ma
in particolare si tratta di una raccolta di bandi, di manifesti
che esistono in quanto si è verificata un’esigenza improvvisa,
un fatto accaduto che deve essere tenuto sotto controllo o al
contrario qualcosa di assolutamente usuale ma che richiede una
ripetitività di ordini per ottenerne l’osservanza (contrabbando
di grani da evitare, gare di appalto per la riscossione di regalie
o tributi da mettere all’asta, epidemie di malattie umane o bovine
da prevenire, argini di vie d’acqua da riparare e ricostruire,
strade pubbliche da mantenere, pecore che causano danni alle coltivazioni
e ai boschi da allontanare, e poi, monete straniere che entrano
nello stato abusivamente, luoghi riservati da salvaguardare dalla
caccia fraudolenta, modi di pescare distruttivi dalla fauna ittica
da vietare e altri modi per preservarla dall’estinzione, riscossione
di dazi appaltati da tutelare, carichi da imporre e loro esazioni
ed esenzioni e molto altro ancora). Quella raccolta, dicevamo,
può essere guardata in mille modi e in ciascuno di questi può
essere evidenziato un suo aspetto peculiare: le autorità emananti
e la politica seguita da ciascuna di esse nei confronti delle
materie a loro soggette, l’economia dello stato e la sua produttività
favorita o ostacolata dalle normative vigenti, la posizione del
patriziato nei confronti delle cariche pubbliche e di nuovo tanti
altri modi ancora.
Ma un modo interessante di esaminare questo tipo di raccolta, dicevo, potrebbe essere anche quello di guardare agli
aspetti di una società nel senso vivo di un popolo che si muove e agisce nella ricca varietà delle situazioni che possono continuamente accadere:
il caso del pastore che non voleva pagare il dazio per il rientro delle pecore che aveva portato a pascolare oltre confine diventa un fatto
esemplare. Alcuni episodi dall’apparenza insignificante come la spigolatura negata ai forestieri, e così le elemosine riservate ai
residenti nella città ci mostrano come la povertà fosse in certo modo presa in considerazione, anche se non sanata, non solo da parte
delle istituzioni benefiche ma nel normale decorso dei provvedimenti governativi. In realtà la vita di questa gente, ricca o povera,
patrizi o mendicanti, ci scorre davanti come in uno strano filmato tra gli strepiti intimidatori delle gride molto spesso inosservate
malgrado le pene spettacolari da loro comminate. E ci sono tutti: i patrizi alle porte a sorvegliare l’ingresso
(anche se poi ci mandavano dei sostituti), i signori che avevano l’appalto della vendita dell’acquavite e che protestando chiedevano
gride che li tutelassero dalla fabbricazione abusiva, i venditori e le venditrici al mercato che vendevano frutta e verdura mal conservata,
i salnitrari che con la loro scopetta raccoglievano nelle case (fra quali proteste!) il fiore del salnitro per la fabbricazione della polvere
da sparo, gli orfani degli istituti che aiutavano a seppellire i morti dietro un piccolo compenso, la carestia colla paura di tutti di perdere
il poco grano perché venduto all’estero dai contrabbandieri, i fornai che facevano il pane al burro e cercavano di non vendere il pane calmierato,
la gente che non poteva prendere il sale dalle fontane di acqua salsa vicino a casa perché il sale andava comprato alle gabelle, i signori che
andavano a teatro in carrozza con le dame forse vestite di seta (altrimenti cosa ci sarebbero stati a fare gli allevamenti dei bachi e i mulini
da seta?) seguendo percorsi stabiliti. E ancora le strade di quella Milano piena di vie d’acqua, bellissima e
puzzolente con i mucchi di letame davanti alle case, con le navazze stercorarie che cercavano di entrare in città di giorno a vuotare
le cisterne del bottino, con le carrette dei morti e dei malati trasportati al camposanto o al lazzaretto, con le carcasse dei cani
scorticati e abbandonati per la strada[9] ... Ma in tempo di epidemia le erbe
profumate venivano bruciate nelle strade per disinfettare le "robbe" (il puzzo era ritenuto il principale veicolo delle malattie),
le strade venivano spazzate e le misteriose "macchie di color giallo" apparse sulle muraglie ... chissà cosa potevano essere
(probabilmente nulla di nocivo), ma per la pubblica quiete veniva vietato lo sporcare o tingere i muri. E la crisi della metà
del Seicento (guerre, carestie, epidemie) quando gli artigiani e gli operai cominciarono a emigrare per cercare lavoro e
occorsero incentivi per far rimanere loro e attirare quelli forestieri ... E poi, quasi all’improvviso, ma non lo fu certamente, il nascer
dell’industria con le prime "macchine" preziose e di cui non può essere esportato
il modello[10], l’abolizione dei primi dazi per dare
più ampio respiro al commercio, le prime scuole per ostetriche, la soppressione di molte corporazioni quali quelle dei Confettai, dei
Pellettieri, dei Profumieri e altre ancora ... Complessivamente possiamo dire che la vita a
Milano per alcuni aspetti sembra essere stata in quei secoli una
vita con problemi di tipo stranamente attuali con una legislazione
attenta alle norme igieniche, all’inquinamento delle acque e dell’aria,
alla preservazione della fauna ittica; con attenzione all’eccessivo
sfruttamento dei garzoni[11],
alla viabilità nel centro di Milano ... Molto interessante è la
lettura delle Tariffe in cui vengono elencate tutte le merci soggette
al dazio della mercanzia ( interessante anche dal punto di vista
linguistico per i numerosi oggetti dal nome sconosciuto): si vendevano
scarpe di velluto e stoffe intessute d’oro, pelli di gatti d’Olanda
e di "lupo da bosco", lenzuoli nuovi e usati, strumenti musicali,
selle ricamate d’oro o di velluto, semi di cedro, ritagli di "pellizze"
... Un altro elemento che emerge dal nostro quadro
è la povertà, specie in periodo spagnolo, che sembra trapelare
dagli ordini stessi che impongono tasse e ancora tasse sopra ogni
cosa impedendo al popolo di trovare mezzi di sussistenza diversi,
di emigrare, per esempio, o di ricavare il sale da fonti di acqua
salsa vicine a casa (lo abbiamo già detto) in linea con quella
concezione che riteneva le imposte necessarie allo stato per quello
che lo stato considerava il suo compito precipuo e quasi unico:
mantenere la sicurezza interna ed esterna (e quindi trovare denaro
per mantenere gli eserciti) e pagare gli stipendi a tutti i facenti
parte dell’organizzazione statale o a riparare mura ed edifici
pubblici. A questo si aggiungono i privilegi e le esenzioni di
cui il patriziato godeva ... Occorrerà lo scorrere dei secoli,
l’avvento di sovrani illuminati per trovare quelle leggi che mirano
a rinsaldare l’economia, a spazzare via vecchi privilegi, a mirare
ad una felicità pubblica
che possa significare benessere per il popolo nella sua interezza... Non sono ancora riuscita a sapere l’origine
di questa raccolta e per questo, come per tutte le mancanze o
errori che possono essere rilevati, i lettori farebbero cosa gradita
se volessero scriverci per colmare lacune, integrare le notizie
date, farci sentire che quest’opera se sarà meno incompleta, lo
sarà anche per l’interesse che il pubblico avrà avuto per
essa. |
4. Due parole sulla storia del periodo di cui
tratteremo[12]
Con la morte di Francesco
II, ultimo duca della casa Sforza, la dinastia sforzesca si estinse
per mancanza di eredi: questo comportò la devoluzione del ducato
di Milano (quale feudo imperiale) all’imperatore da cui Francesco
II aveva avuto l’investitura. Così nel 1535, anno di morte del
duca, per motivi di diritto feudale (devoluzione del feudo) e
di successione dinastica (guerra di successione spagnola[13])
finì l’indipendenza dello Stato di Milano[14].
Con l’imperatore Carlo V d’Asburgo, che nel 1546 investì del ducato
il figlio Filippo futuro re di Spagna (Filippo II), iniziano le
dominazioni straniere nel Milanese che durarono, con alterne vicende,
fino alla seconda guerra d’indipendenza nel 1859. Ma i documenti
qui pubblicati riguardano solo il periodo di tutto il predominio
spagnolo, di cui dicevamo (1535-1706), e di quello austriaco fino
al 1796. In tutto questo periodo, pur avendo perso l’autonomia
politica, lo Stato di Milano aveva mantenuto l’autonomia amministrativa
e le vecchie magistrature continuarono a funzionare in sostanza
inalterate, anche se riformate e in alcuni casi cambiate nelle
loro precipue funzioni: Carlo V, firmando le Novae
Constitutiones[15],
volute e iniziate da Francesco II Sforza, aveva ribadito la volontà
di continuare e confermare l’assetto giuridico amministrativo
dello stato secondo le sue tradizioni. Con la venuta degli austriaci,
la politica amministrativa e di governo di Carlo VI non presenta
rotture rispetto alla tradizione ducale e spagnola e le magistrature
non subiscono modificazioni. L’entrata in Milano dei Savoia negli
anni 1733-1736 porterà solo un momentaneo sconvolgimento: Carlo
VI rimetterà, rientrando nel Milanese, tutto come era prima. Sostanziali
cambiamenti si ebbero solo dopo il 1740 con l’avvento di Maria
Teresa d'Austria: nel 1749 si ebbe una riorganizzazione generale
delle magistrature e il numero dei funzionari venne diminuito,
alcune cariche furono abolite (il consiglio segreto), altre cambiarono
fisionomia (il governatore, i magistrati dei redditi etc.), altre
furono istituite (il supremo consiglio di economia, la giunta
per le cause fiscali). Nel 1771 si ebbe una riforma generale delle
magistrature: separazione dei poteri, e quindi mutamento delle
funzioni di alcune di esse (il senato rimase con la sola funzione
giurisdizionale), abolizione di altre (il supremo consiglio di
economia) e inoltre aumento del numero dei consultori di governo,
l’amministrazione delle finanze passò al Magistrato Camerale etc.
Ma è con Giuseppe II nel 1786 che avviene il vero sostanziale
mutamento: il processo di modernizzazione degli organi amministrativi
messo in atto dal governo di Vienna spazzò via tutto l’apparato
milanese così come si era avuto per secoli e furono abolite antichissime
magistrature come il senato, il Magistrato Camerale, la magistratura
della Sanità; furono istituiti preture e tribunali collegiali
a cui spettarono le funzioni giurisdizionali e dipartimenti specializzati
che nel consiglio di governo avrebbero svolto la funzione amministrativa.
Con la morte di Giuseppe II nel 1790, l’imperatore Leopoldo II, sensibile al malessere che si agitava in Lombardia e allo scontento del patriziato, cercò di ripristinare qualche vecchio organo per accontentare le richieste dei milanesi, ma sei anni dopo con l’arrivo dei francesi di Napoleone si finirono di eliminare le vecchie tracce dell’antica amministrazione.
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5. Le autorità, le magistrature, le cariche, gli uffici
dello Stato di Milano (1541-1796)
Passiamo ora a delineare le funzioni più significative di quelle magistrature che per più
di due secoli hanno emanato gli atti e i provvedimenti pubblicati
nella Bibliografia. Non saranno quindi prese in considerazione
tutte le cariche che durante quei secoli hanno partecipato al
governo dello Stato di Milano, ma solamente quelle i cui atti
sono stati qui registrati facendo parte della raccolta di Pavia[16].
Salvo eccezioni, parleremo di quelle della città dominante, cioè
di quelle di Milano. Quando fosse servito per una migliore comprensione dell’istituzione, abbiamo messo riferimenti a periodi anteriori o posteriori alle date sopra espresse. Va sempre però tenuto presente che per quelle magistrature che vediamo con la loro denominazione perdurare apparentemente invariate nel tempo, non corrisponderanno sempre identiche funzioni: scopo di questa breve esposizione è di rendere più comprensibile ad un pubblico non esperto di vecchia legislazione milanese un insieme di documenti interessantissimi, ma maggiormente comprensibili e godibili con l’intervento d’alcune spiegazioni semplici ed essenziali. In realtà con il predominio austriaco, e in particolare dal 1745, le magistrature esistenti subiscono trasformazioni e ne vengono create delle nuove: si introduce un progetto di modernizzazione, senza dubbio positivo, che spesso lascerà solo il nome agli antichi organi. Comunque autorità, magistrature e uffici sono stati posti insieme in un unico ordine alfabetico: intendiamo dare, come dicevamo, solo una sommaria spiegazione delle cariche quali erano nei periodi in cui sono state emanate le gride qui pubblicate, rimandando per una più esauriente illustrazione alle opere citate in nota da cui abbiamo tratto le notizie. Le magistrature erano di diversa origine: alcune risalivano alla tradizione ducale come il senato, i magistrati delle entrate, il capitano di giustizia, il tribunale della sanità, altre erano nate come espressione degli interessi municipali come il podestà, il consiglio municipale, i conservatori del patrimonio, il vicario e i dodici di provvisione etc. In periodo spagnolo, furono aggiunte quelle che erano diretta espressione del sovrano: il governatore, il grancancelliere, il castellano, il consiglio segreto, i reggenti nel consiglio d’Italia, etc. Altre volte le gride erano emanate da autorità che esprimevano l’autonomia di alcuni organismi, come gli abati e i consoli delle università mercantili, delle corporazioni artigiane o dei collegi professionali che potevano dettare regole per i propri affiliati, o come i signori dei feudi, laici o ecclesiastici, di cui parleremo più avanti. Numerosi erano anche gli uffici dipendenti dalle singole magistrature (per esempio le cancellerie) o eretti in rappresentanza di una magistratura in altra città dello stato (i referendari). Ricordiamo che in ogni magistratura si assommavano
più funzioni: il magistrato svolgeva funzioni legislative ed esecutive
(emanava norme e le faceva applicare), giudicanti (era il tribunale
per i casi riguardanti le materie di sua competenza), svolgeva
compiti di polizia (ogni magistratura aveva i suoi bargelli),
non solo di polizia giudiziaria ma anche di polizia di sicurezza.
In questo caso la funzione della ricerca dei reati si univa a
quella della repressione e prevenzione dei reati stessi. Numerosi
sono i casi in cui sorsero conflitti di competenza tra magistrature:
spesso una stessa materia competeva a più organi, magari sotto
profili diversi, e spesso deliberava chi non avrebbe dovuto[17].
Fino alla riforma del 1771 non si realizzò la separazione dei
poteri e il verificarsi di un così grande sconvolgimento fa comprendere
il malumore con cui riforme così moderne fossero accolte dai milanesi.
Altra considerazione generale: a lungo le cariche, sia governative che municipali, furono appannaggio dei patrizi[18],
come pure si ebbe l’ingresso di elementi non milanesi, spagnoli per esempio, nel periodo del loro predominio,
talvolta anche napoletani o siciliani. Agli inizi del Seicento si ebbero cariche riservate agli spagnoli:
quelle di governatore, grancancelliere, presidente del magistrato straordinario; così anche i due magistrati camerali
ebbero una percentuale di seggi riservata.
Amministratore di governo Amministratore di governo (e capitano generale) fu una carica a carattere quasi esclusivamente rappresentativo che ricoprì Francesco III d’Este duca di Modena durante gli anni in cui furono designati governatori Pietro Leopoldo d’Asburgo Lorena e Ferdinando Carlo Antonio d’Asburgo Lorena, minorenne (1753-1771). La carica fu esercitata fino al 15 ottobre 1771 anno in cui Ferdinando raggiunse la maggiore età. Dopo quegli anni l’effettivo potere passò al ministro plenipotenziario che fu il reale rappresentante di Vienna nella Lombardia austriaca.
Autorità militare In tre casi emana il provvedimento un’autorità
militare in aiuto a quelle civili: due volte per combattere il
contrabbando (e quindi la vendita e in genere la contrattazione,
di beni oggetto di regalie operato dai militari) e la terza, su
ordine del governatore, per dare assistenza all’"impresaro"
della polvere da sparo per la raccolta del salnitro contro le
vessazioni ai salnitrari o il contrabbando del salnitro. Si tratta
di due casi in cui i comandanti delle truppe cesaree in Italia
ordinano ai loro soldati di non introdurre e vendere nello Stato
di Milano una volta sale forestiero e un’altra tabacco forestiero
e si tratta di un terzo caso in cui il governatore chiede al capitano
della cavalleria leggera l’appoggio dei soldati sia per combattere
l’eventuale contrabbando, sia per facilitare la raccolta del salnitro
contro l’opposizione dei proprietari dei luoghi (stalle e case,
ad esempio) dove si trovava il suddetto salnitro. Siffatti divieti
per i militari o richieste di appoggio all’esercito appaiono in
moltissime gride del magistrato ordinario: ricordiamo che l’organizzazione
militare dello stato originariamente spettava al governatore,
supremo capo militare e amministrativo; fu solo nella seconda
metà del Settecento che si attuò la tendenza a dividere la popolazione
civile dai militari, separandoli anche fisicamente e costruendo
caserme per l’alloggiamento.
Capitano di giustizia Il capitano di giustizia svolgeva una duplice attività: di polizia come attività di pubblica sicurezza, e di magistrato giusdicente:[19] era membro del consiglio segreto e organo consultivo del governatore. Sorto in età sforzesca, lo troviamo regolato nelle Novae Constitutiones come magistrato criminale (e civile come competenza straordinaria)[20]. La sua giurisdizione fu essenzialmente di giudice criminale su Milano e dintorni per un raggio di 10 miglia intorno alla città, "cumulativa" con quella del podestà; si estendeva per tutto lo stato quando trattavasi di reati che prevedessero la pena capitale o la confisca dei beni, sempre che arrivasse prima di tutti gli altri giudici. Si occupò delle cause civili degli alti funzionari e dell’esecuzione di tutte le sentenze del senato. Con Carlo V divenne una carica biennale di nomina regia. L’organo non fu mutato in seguito alle riforme del 1749 e 1771, ma nel 1781 Giuseppe II lo trasformò in una magistratura esclusivamente criminale con funzioni di magistrato di polizia. Il 5 dicembre 1786 fu abolito e sostituito dal Tribunale Criminale composto di un capo, un vice e quattro consiglieri assessori. Con il 1791, il nuovo direttore del Tribunale ebbe il titolo di capitano di giustizia, ripristinando la carica.
Collegi, corporazioni, università I collegi professionali (come quello dei Medici) e le università mercantili (come quella dei Mercanti d’oro, argento e seta) fanno parte di quelle forze politiche che agiscono nello stato indipendentemente dalle magistrature e dai loro uffici avendo autonomie riconosciute e regolate dai propri statuti. Questi corpi svolgono un’attività normativa nei confronti di quelli "alla loro giurisdittione subordinati" spesso su ordine di una magistratura (come è il caso del giudice delle monete in alcune gride della raccolta), hanno poteri giurisdizionali in alcune materie (gli abati e i consoli dei Mercanti si occupavano di tutte le cause mercantili e bancarie nell’ambito delle controversie mercantili), si pongono come promotori di iniziative normative nei confronti del governo (come il caso dell’abate del collegio dei Medici che chiede venga vietato l’esercizio abusivo della professione medica o quello dell’università dei Maniscalchi che chiede l’obbligatorietà d’un attestato per poter esercitare la professione di sensale di cavalli e muli).
Congregazione degl’interessati milanesi La congregazione sorse quando nel 1549 furono equiparate le pertiche civili a quelle rurali e i milanesi che possedevano beni nelle quattro principali città dello stato (Pavia, Cremona, Lodi e Novara) formarono un organismo che pagasse i carichi di quella città o provincia dove possedevano beni. Alla congregazione, formata da 10 membri eletti dagli interessati e con carica vitalizia[21], si assegnò una quota d’imposta proporzionale al perticato posseduto dai milanesi in ciascuna delle quattro città. Le imposte che la congregazione riscuoteva dai suoi rappresentati comprendevano tre voci: la diaria, le spese proprie ordinarie e straordinarie, i costi di alloggiamento delle truppe.
Congregazione del Banco di S. Ambrogio La congregazione che gestiva il Banco[22], responsabile di tutta l’attività decisionale che lo riguardava, si occupava dell’amministrazione delle rendite della città ed era in pratica un organo municipale. In situazioni di gravità il Banco anticipava capitali alla città per far fronte agli oneri cittadini: il comune di Milano otteneva prestiti a basso tasso di interesse avendo come obiettivo il risanamento dei debiti contratti nel corso dei secoli. In realtà non riuscì neanche a pagare gli interessi dovuti e fu costretto a cedere dapprima l’amministrazione di regalie e in seguito il godimento dei loro redditi, con le quali cose il Banco si arricchì a dismisura. In sostanza il Banco era considerato anch’esso un corpo civico sia perché amministrava quasi tutte le entrate della città, sia perché i suoi membri erano eletti dal consiglio generale. Nel 1786 fu incorporato nel Monte di S. Teresa e cessò di esistere.
Congregazione del Monte Civico Il Monte, organo municipale, fu istituito dalla
congregazione di stato nel 1755 (dispaccio regio del 18 dicembre)
per rimborsare, tramite i proventi delle regalie che gli erano
state concesse[23],
un cospicuo debito che le comunità esigevano dallo stato. L’istituzione
del Monte non dette i risultati sperati anche se sulla rendita
concessa al Monte il governo si era impegnato a non rivendicare
alcun diritto, considerandola "staccata irrevocabilmente" dal
demanio. Cessò la sua attività nel 1769 quando fu assorbito dal
Monte S. Teresa[24].
Congregazione del Monte di S. Francesco Istituito nel 1642 come diretta emanazione della Camera venne soppresso nel 1652, ricostituito nel 1653 (Monte nuovo di S. Francesco) e definitivamente soppresso essendo stato inglobato nel 1752 in quello di S. Teresa.
Congregazione del patrimonio La congregazione[25]
fu istituita nel 1599 dal consiglio dei decurioni come organo
straordinario con lo scopo di integrare l’attività del vicario
di provvisione provvedendo a tutti quegli affari del comune che
non riguardassero l’anno in corso. I conservatori del patrimonio
si occuparono della gestione di debiti e crediti contratti dal
comune negli anni precedenti, di cambi e prestiti, delle liti
in cui la città era parte in causa e che si protraevano irrisolte
da anni. In seguito alcune funzioni che per legge sarebbero spettate
al vicario, come l’amministrazione delle finanze, furono assunte
dalla congregazione del patrimonio, così come la compilazione
dei bilanci cittadini. Le competenze dei due organi furono sempre
concorrenti e in certe materie ebbero giurisdizione cumulativa,
come per gli ordini che riguardavano l’osservanza degli statuti
delle corporazioni, sul cui buon funzionamento[26]
vigilavano i conservatori del patrimonio. Fino alla riforma del
1758 (decreto del 10 febbraio), la congregazione non ebbe sostanziali
variazioni. Con la riforma la nuova congregazione del patrimonio
inglobò anche le competenze che erano state precedentemente della
congregazione del ducato, che a questo punto scompare. Della nuova
congregazione del patrimonio entrano a far parte i due sindaci
rappresentanti della provincia. Tuttavia in pratica questa partecipazione
durò soltanto per il tempo della vita dei sindaci eletti nel 1745
dalla congregazione del ducato. Ebbe di sua competenza tutta l’amministrazione
di Milano e provincia riunite, in materia di carichi fu giudice
di prima istanza ed anche la sua composizione mutò[27].
Fu definitivamente soppressa nel 1786.
Congregazione dello stato[28] La congregazione nel 1543, all’inizio del periodo spagnolo, nacque quando le città minori dello stato elessero loro rappresentanti in vista della formazione dell’estimo generale di tutto lo stato promosso da Carlo V[29]. All’inizio, nata come organismo temporaneo, fu formata solo dai rappresentanti delle città, gli "oratori", eletti dai consigli delle città lombarde (e quindi patrizi), che avrebbero dovuto difendere a Milano i diritti delle città davanti al governo. In seguito, a questi rappresentanti si unirono quelli delle province (o contadi), i "sindaci" scelti tra gli estimati, formando così una congregazione costituita da un presidente (il vicario di provvisione di Milano), e da oratori e sindaci[30] che si riuniva previa autorizzazione del governatore (alle riunioni dal 1594 partecipavano anche i conservatori del patrimonio come rappresentanti di Milano). La congregazione aveva alle proprie dipendenze anche un segretario, un cancelliere e un ragionato per lo svolgimento delle attività di segreteria e contabili. La sua principale funzione fu quella di stabilire la ripartizione e le modalità di riscossione delle imposte ordinarie e straordinarie tra città e province, senza potersi ingerire nelle questioni più importanti, per esempio, dell’ ammontare delle imposte. Il comportamento dei due gruppi di componenti fu sempre litigioso e tendente all’ostruzionismo, mirante a perseguire obiettivi materiali e immediati; forse per questo non riuscì a svolgere una politica utile ad ambo le parti. La congregazione di stato fu abolita nel 1786 e ripristinata nel 1791 ma con caratteristiche molto diverse.
Congregazione municipale Le congregazioni municipali presero il posto delle congregazioni del patrimonio (26 settembre 1786) nelle otto province della Lombardia austriaca istituite con gli stessi dispacci del 26 settembre. Erano organi esecutivi privi di potere giurisdizionale [31], ma anche le loro ampie funzioni esecutive non avevano autonomia necessitando, salvo per i provvedimenti di urgenza, della preventiva autorizzazione governativa. Erano composte da un prefetto[32] e da un numero variabile di assessori. Si occupavano, fra l’altro, di amministrazione del patrimonio pubblico, di manutenzione delle strade e dei fiumi, soprintendevano agli alloggiamenti militari e alle vettovaglie e, per Milano, anche all’illuminazione pubblica. Svolgevano funzioni di polizia anche sanitaria e mantennero questi compiti fino al 1791 quando con Leopoldo II la congregazione municipale di Milano ebbe ampliamenti nel personale e fu, con il regio delegato, "abilitata a giudicare in prima istanza in materia di carico o d’imposta" (dispaccio del 20 gennaio 1791). Le congregazioni subirono definitive trasformazioni con l’arrivo dei Francesi nel 1796.
Conservatori della sanità Per le gride di questa particolare e interessante magistratura, emanate durante il periodo di predominio spagnolo, rimandiamo alla pubblicazione su CD-Rom già uscita e alla sua Introduzione[33]. La composizione della magistratura rimase invariata anche in periodo austriaco fino al 1749 quando si ebbe la ristrutturazione dei due magistrati ordinario e straordinario che si unificarono nel Magistrato Camerale: invece dei due questori tratti dai due magistrati, si ebbe un solo questore e, al posto di quello mancante, si aggiunse inizialmente un decurione per il tempo dello spurgo dei canali, carica che divenne poi perpetua. La nomina diventò biennale e il presidente fu eletto da tutti i senatori provinciali e stranieri, il senato aveva ancora il diritto di nominare il presidente, il questore e il segretario ma senza favorire i senatori milanesi[34]. In seguito alle riforme del 1786 la magistratura fu abolita e la sanità diventò un ramo della pubblica sicurezza, il VI dipartimento del consiglio di governo.
Consiglio di governo Istituito con dispaccio del 30 marzo 1786 in seguito alla riforma amministrativa che abolì quasi tutte le vecchie magistrature[35] concentrandole e fondendole in un unico organo, il consiglio di governo fu diviso in tanti dipartimenti[36] quante erano le funzioni dello stato esercitate prima separatamente dai vari organi. Con le riforme del 1791, mutò il nome in magistrato politico-camerale, mantenendo la precedente struttura.
Consiglio generale di Pavia Il consiglio generale, massima autorità prevista dagli statuti del 1394 e dalle leggi successive fino alla riforma del 1784, presiede al governo di Pavia e al suo principato. Il consiglio era formato da due sindaci, due avvocati, il cancelliere, i consiglieri e i dodici della provvisione. I consiglieri erano quaranta o cinquanta persone scelte tra le famiglie decurionali pavesi dotate di un certo estimo ed esenti da debiti e condanne. L’assemblea si riuniva una o due volte alla settimana e si rinnovava di un terzo ogni anno. La convocava il pretore, nominato dal governatore tra i senatori, che restava in carica due anni e che aveva il compito di controllare il consiglio.
Consiglio privato Istituito nel 1753, con dispaccio del 20 dicembre, fu composto dal grancancelliere, dai presidenti del senato e del Magistrato Camerale, dal reggente e dal comandante delle truppe e fece le veci del consiglio segreto tanto in ambito governativo che per la giustizia, specialmente per i casi di revisione delle cause fiscali.
Consiglio segreto Il consiglio fu istituito già nel XIV secolo con la doppia veste di organo politico e giurisdizionale. Organo consultivo molto importante, mantenne queste sue funzioni anche in età spagnola: assisteva il governatore negli affari di stato di una certa rilevanza e ne poteva fare le veci in sua assenza. Nelle cause fiscali senza appello, le parti o il Fisco potevano ricorrere al consiglio per la revisione del processo. Fu sempre in competizione col senato che era il tribunale supremo. Al tempo di Francesco II Sforza era composto di sette o più consiglieri (il grancancelliere, i presidenti del senato e dei tre magistrati, il tesoriere generale, il capitano di giustizia e altre persone), ma il numero successivamente non è sicuro e l’istituto si trasforma: nel 1622 i consiglieri sono già 13[37]. Nel 1747 - il consiglio fu abolito nel 1745, ma la riforma fu messa in atto nel 1747 - fu sostituito da due giunte: una[38] incaricata di decidere sulla revisione delle sentenze del magistrato ordinario e sulle grazie concesse dal governatore e non approvate dal senato; l’altra[39], detta giunta interina, incaricata di reggere lo stato in caso di assenza o morte del governatore. Dal 1753 fu sostituito da un consiglio privato.
Corriere maggiore Il corriere maggiore era colui che stava a
capo del servizio delle poste[40]:
fin dal 1599[41]
lo stato si è preoccupato di rendere regolare quel particolare
servizio che è quello postale. L’istituzione venne fatta col
parere del consiglio segreto e del magistrato ordinario. Il
governatore stesso dava la normativa in merito e il corriere
maggiore[42]
doveva relazionare a lui sulle eventuali modifiche al servizio.
Erano ammessi anche corrieri privati, ma per svolgere la loro
attività avevano bisogno della licenza del corriere maggiore.
Ancora nel 1730, grida del 24 novembre, il sovrano vietava a
qualunque persona di raccogliere lettere senza licenza del corriere
maggiore, considerando la distribuzione della posta una privativa
di quell’ufficio. Comunque nel corso del Settecento fu costituito
un ufficio centrale delle poste a Milano e uffici minori
nelle altre città e il Visconti[43]
cita una grida del 24 novembre del 1730 contenente l’obbligo
per i vetturini di notificarsi presso quell’ufficio. Nel 1767,
grida del 10 marzo, ci si occupa delle operazioni per la redenzione
della regalia. Nel nostro archivio troviamo dal 1762 gli atti
firmati dal ministro plenipotenziario in quanto "generale sopraintendente,
e giudice supremo delle regie poste d’Italia"; nel 1781 abbiamo
un "Avviso" proveniente dall’ufficio del corriere maggiore sottoscritto
dall’intendente generale di finanza, il Lottinger. Nel 1786 con la riforma amministrativa, istituito il consiglio di governo, le poste fecero parte del VII dipartimento.
Feudatario Il trovare tra le nostre autorità emananti ancora a fine settecento il "feudatario" può generare perplessità: in realtà nel cinquecento e seicento si assiste ad un processo di rifeudalizzazione delle terre dello Stato di Milano e il fenomeno perdura per tutto il secolo successivo. Ritengo utile schematizzare alcune caratteristiche che differenziano il feudatario "moderno" da quello medievale per evitare che possano essere pensati come attribuiti anche al primo funzioni e poteri che sono stati propri solo del secondo[44], anche se, come in ogni schematizzazione, si tende a presentare come sicure e nette questioni che, ricche di sfumature, sono state oggetto di discussioni e dispute. È superfluo dire che il feudatario "moderno" non aveva niente che lo accomunasse a quello medievale soprattutto per i fini per cui erano stati costituiti i due tipi di feudo, e non è questa la sede per parlare dell’origine del feudo nel medioevo, delle sue motivazioni e caratteristiche. I feudi che troviamo in Lombardia erano distinti in feudi imperiali e feudi camerali o ducali: i primi dipendevano direttamente dall’imperatore, i secondi dalle autorità provinciali. I feudi camerali dello Stato di Milano si trasmettevano
dal padre al figlio primogenito (discendenza maschile), quelli
del ducato di Mantova potevano essere trasmessi anche agli estranei
con disposizione testamentaria del possessore (feudo improprio).
Nei feudi imperiali, concessi a famiglie particolarmente legate
all’imperatore, posti in genere ai confini dello stato, riappare
invece una figura di feudatario di tipo medievale: possiamo dire
che il feudatario imperiale poteva agire senza controlli sul territorio
che gli era stato dato in concessione dal sovrano, poteva giudicare
senza che vi fosse appello al senato, poteva esigere imposte (il
solo freno era dato dall’imperatore) e battere moneta (ma anche i
feudi camerali potevano avere a volte il diritto di zecca), pretendevano,
insomma, di non essere soggetti alla giurisdizione, leggi e imposte
dello Stato di Milano. Tra i feudi imperiali ecclesiastici troviamo
Limonta, Civenna e Campione, feudo del monastero di S. Ambrogio
di Milano del cui abate abbiamo nella raccolta un’omelia (predica
ai fedeli priva di contenuto normativo) e un editto che pubblica
una convenzione tra l’imperatore e i feudi imperiali sull’arresto
e consegna dei banditi e malviventi. Bisogna anzitutto tener presente che il complesso
del sistema feudale lombardo mirava in
primis a soddisfare necessità fiscali (la devoluzione dei
feudi, e quindi la successiva nuova assegnazione ad un nuovo acquirente,
costituì una importante risorsa economica per lo stato) e in secondo
luogo a soddisfare esigenze politiche perché si veniva a mantenere
uno speciale mezzo che legava al trono quella classe che, nobile
o non, voleva far parte del patriziato. Ricordiamo che per invogliare
le persone all’acquisto del feudo veniva collegata ad esso la
concessione di titoli nobiliari in relazione all’ampiezza del
feudo e al numero di "fuochi" che vi si trovavano: "con titolo
di conte o marchese annesso al feudo" si usava scrivere nelle
cedole che fissavano luogo e data per l’asta pubblica. Durante
il periodo spagnolo e oltre, il governatore, su delega del sovrano
che agiva in quanto duca di Milano[45],
alienava al miglior offerente profitti o rendite che sarebbero
spettati al sovrano: così il feudatario percepiva censi e redditi
derivanti dalle regalie ordinarie quali i dazi su pane, vino,
carne, avena, etc., dai privilegi per il monopolio di forno e
di mulino e altri; dai pedaggi, dai diritti d’acqua, talvolta
(molto spesso) anche dal dazio dell’imbottato e dalle regalie
straordinarie come i proventi derivanti dalla riscossione delle
tasse per l’amministrazione della giustizia, dalle multe e pene
pecuniarie derivanti dalle condanne penali, come dai diritti di
caccia e pesca riservate alla regia camera. Alcuni tributi erano
generalmente esclusi come quello della mercanzia, della tratta
dei gualdi, del censo del sale e altri, ma non sempre: in qualche
caso furono anch’essi venduti dallo stato. Altra prerogativa concessa al feudatario (ed
è quella che ci riguarda) era quella di emanare leggi, lo ius
condendi leges: abbiamo infatti gli editti dei feudatari
di Busto Arsizio, Belgioioso, Formigara e Vescovato tra gli anni
1759 e 1776 in materia di caccia e appalti. La frequenza delle devoluzioni per morte senza successori del feudatario non era motivo di diminuzione del numero dei feudi, ma anzi di ricerca ansiosa da parte della regia camera di un nuovo acquirente che facesse la sua "oblazione"[46] (vedi le numerose "cedole" d’asta, contenenti lunghi elenchi di feudi in vendita, che indicevano i nuovi incanti: l’ultima cedola è del 1775)[47]. La giurisdizione del feudatario, che nel suo
territorio aveva competenza privativa, cioè esclusiva e non cumulativa,
era fortemente limitata dal privilegium
civilitatis affermato contro il piccolo magistrato feudale,
giudice minore: il magistrato cittadino, il maior
magistratus, aveva competenza esclusiva su tutte le cause
civili e criminali che riguardassero un cittadino, o un suo colono,
per obbligazioni o fatti avvenuti nel territorio del feudatario[48].
Spesso il giudice cittadino approfittava dell’ignoranza del magistrato
feudale per dichiararsi competente anche in cause che sarebbero
state di competenza di quello: ci sono quindi casi in cui il feudatario
doveva difendere il suo giudice ricorrendo al senato, ma anche
casi in cui il praetor feudale
aveva cercato di usurpare la giurisdizione al magistrato cittadino
con conseguente ricorso del magistrato cittadino. Il giudice supremo
era il senato (eccetto per i feudi imperiali) che aveva il potere
di avocare a sé le cause dei giudici inferiori; ma la sentenza
del giudice feudale poteva essere impugnata anche davanti ad un
giudice d’appello che sfuggiva al potere del feudatario perché
questi aveva solo la giurisdizione di primo grado. L’amministrazione
della giustizia rimaneva comunque limitata alla bassa giustizia,
ricordiamo per esempio che il giudice delle vettovaglie aveva
giurisdizione anche nei feudi[49].
Anche nel campo della giurisdizione si ebbero evoluzioni attraverso
gli anni: alla fine del settecento Giuseppe II espresse il parere
che la giurisdizione feudale potesse essere mantenuta solo nei
grandi feudi e che dovesse essere abolita nei piccoli che non
avrebbero potuto sostenerne le spese e dove non avrebbe portato
guadagno. Il feudo si presenta quindi ormai come un bene
a cui sono annesse giurisdizione e regalie e anche lo ius
condendi leges, ma non assolutamente fuori controllo (oltre
alla Novae Constitutiones,
la materia feudale era regolamentata dagli Ordines[50]
del senato, dalle gride dei governatori, dalle Consuetudines
feudorum dette Libri feudorum[51]
oltre che dalle norme statutarie e del diritto comune) e senza
il carattere militare che lo aveva contraddistinto nel medioevo.
Anche questo tipo di feudo finirà, ma non così presto, non semplicemente
e non tutto insieme: per decretarne la scomparsa dovrà arrivare
il 1870 con la presa di Roma e il completamento dell’unità d’Italia!
Giunta civica La giunta fu istituita provvisionalmente dal
ministro plenipotenziario Beltrame Cristiani e la troviamo operante
il 20 agosto 1746 a Mantova dopo l’avvenuta aggregazione di questo
ducato allo Stato di Milano. Firmano l’unico atto posseduto dalla
nostra raccolta i sei membri costitutivi della giunta e il segretario.
Giunta dei confini La necessità di una giunta che si opponesse e limitasse lo smembramento delle terre del ducato sorse in diversi tempi durante quei quasi cinquant’anni di guerre di successione che a più riprese cercarono di strappare territori allo Stato di Milano. Nel 1736 l’imperatore Carlo VI nominò i membri della giunta[52]; nel 1743 i lavori, giunti a conclusione, non portarono alcun risultato: il trattato di Worms tra Austria e Piemonte di quell’anno disegnava i nuovi confini dello Stato di Milano e i territori ceduti[53]. Ma nel 1743 stesso a Milano venne istituita una nuova giunta dei confini[54]: le trattative condotte da Vienna e sostenute dalla giunta portarono alla stipulazione del trattato di Milano, che ribadì l’assetto territoriale definito dal trattato di Worms, ma che definì anche la questione della navigabilità sul Naviglio grande e delle opere necessarie alla sua conservazione. La giunta dei confini venne soppressa con il regio dispaccio del 5 ottobre 1771.
Giunta del censimento La giunta del censimento fu un’istituzione austriaca
a carattere temporaneo incaricata di condurre una grande operazione
a carattere tributario di rinnovamento dell’estimo per giungere
alla costituzione di un nuovo catasto generale con stima dei beni
immobiliari e rilevamenti dei terreni compiuta d’ufficio, indipendentemente
dal ceto del proprietario o dal fatto che si trattasse di proprietà
ecclesiastica. Le giunte del censimento che interessano le nostre gride sono due: la reale giunta del censimento del 7 dicembre 1718, istituita da Carlo VI, presieduta da Vincenzo Mirò, reggente collaterale di Napoli[55] (con gli stessi poteri della precedente giunta dei prefetti dell’estimo istituita da Carlo V nel 1543) e quella del 19 luglio 1749, istituita da Maria Teresa[56], presieduta da Pompeo Neri, toscano, grande esperto in materia amministrativa e fiscale (con gli stessi poteri della giunta precedente). La prima giunta sin dai primi mesi ebbe l’ostruzionismo dell’aristocrazia e quindi degli organi cittadini composti di patrizi. La giunta urbana del censimento, istituita dal consiglio generale con il compito di seguire i lavori della giunta, in realtà cercò di rallentare e insabbiare ogni iniziativa che faticosamente il Mirò cercava di portare avanti. Nonostante tutto questo, la giunta arrivò ad ottenere la notifica dei beni da parte dei possessori e la loro misurazione: rimaneva l’ultima fase, quella della stima. Quando verso la metà degli anni ’20 sembrò che i lavori fossero quasi giunti a conclusione, nuovi rallentamenti, dovuti ad errori, omissioni, mutamenti politici, guerre, fecero nuovamente interrompere i lavori della giunta, che si fermò definitivamente nel 1733. La seconda giunta, superate le difficoltà iniziali, iniziò con la stesura di una relazione da parte del Neri, resa pubblica nel 1750, con cui si rendevano noti i risultati della prima giunta e del percorso ancora da fare, fra cui una riforma amministrativa locale e provinciale preliminare all’esecuzione del censo. I lavori di misurazione e di stima dovevano essere corretti e integrati per i cambiamenti avvenuti in quegl’anni, doveva essere definita la questione delle esenzioni ecclesiastiche e il metodo di ripartizione dell’imposta. Anche questa volta la reazione degli organi fu immediata e fortissima: fu ricostituita la giunta urbana del censimento e i tentativi per ostacolare l’operato del Neri furono molteplici. Malgrado tutto nel 1755 fu tutto risolto salvo il problema delle esenzioni ecclesiastiche. La riforma amministrativa era stata attuata e così il sistema di imposizione: un’imposta fondiaria proporzionale al valore capitale dei beni, integrata dalle tre tasse (tassa personale, tassa mercimoniale, tassa sulle case foresi abitate dai proprietari). Terminato il suo compito, la giunta fu sciolta con dispaccio regio il 31 dicembre 1757.
Giunta della cassa di redenzione La cassa era un tribunale composto di funzionari del magistrato ordinario chiamato cassa redemptionis. Fu istituita dal governatore duca di Feria e resa permanente nel 1624 con la creazione di una giunta[57] che ebbe la funzione di redimere solo quelle regalie che erano state alienate dalla regia camera a creditori privati o pubblici dell’erario con il patto espresso che ne prevedeva la redenzione. La situazione fu molto complessa, diversa a seconda che si parlasse di redenzione di feudi o di regalie: spesso di fatto furono alienate regalie senza il patto di redenzione per invogliare l’acquirente a comprare, ma la tesi del Fisco fu sempre per la redimibilità delle regalie alienate anche senza patto espresso di redimere[58]. Nel 1745 con regio dispaccio la cassa passò alla tesoreria generale, con altro dispaccio del 31 marzo 1766 fu abolita. La giunta subì varie trasformazioni con Maria Teresa che la impegnò (era divenuta una giunta di ministri chiamata "giunta di redenzione") in una serie di attività finalizzate a chiarire lo spinoso problema delle regalie e a quantificarne la portata: fra queste attività ricordiamo quando con regio dispaccio del 21 agosto 1766 fu nominata con a capo il Pecci e il Santucci per compilare un "Piano di redenzione delle regalie"; la giunta iniziò i suoi lavori il 18 dicembre e il 30 maggio 1767 il Piano era pronto con le sue proposte[59]. Nel 1767 la giunta venne nuovamente riformata e le vennero attribuite le cause in materia di redenzione.
Giunta delle cause fiscali La regia giunta delle cause fiscali venne istituita nel 1766 nell’occasione di una causa antica che Maria Teresa aveva ora deciso direttamente cassando una sentenza resa nel 1574 dall’ormai abolito magistrato straordinario. A tale giunta, tenuta a riunirsi almeno due volte al mese, Maria Teresa conferisce, unitamente alla stretta competenza giurisdizionale sulle cause fiscali, anche la facoltà di trattare, vendere, transigere le cose devolute, i crediti ed ogni azione fiscale. La sua composizione (6 membri) è stata fissata da Maria Teresa non in maniera astratta ma con precisa indicazione nominativa[60].
Giunta delle pie fondazioni Con l’istituzione il 6 maggio 1784 della giunta delle pie fondazioni[61] si ebbe un organo, modellato su quello viennese, con cui il governo avrebbe voluto raccogliere le informazioni necessarie per procedere al riordinamento e alla concentrazione dei luoghi pii aventi scopi simili, nonché alla loro totale subordinazione al governo. Ebbe anche il compito di creare le nuove scuole elementari di stato e le scuole normali per la preparazione dei maestri. Nasce in seguito all’esigenza di sottrarre alla giunta economale il settore della beneficenza per alleggerire il grosso carico di incombenze su cui la giunta aveva la competenza[62]. Nel 1786 ne prende il posto la commissione delle pie fondazioni[63].
Giunta di governo L’eccelsa real giunta di governo, che sottoscrive le gride del 21 settembre 1716, era stata insediata il 13 luglio 1716 e cessò di governare il 22 dicembre 1716. Nominata con decreto di Carlo VI in attesa del governatore, era composta dal grancancelliere, dai tre presidenti del senato e dei magistrati camerali, dal castellano di Milano, dal commissario generale dello stato, dal generale dell’artiglieria e da due reggenti[64]. La giunta interinale di governo della grida del 24 dicembre 1745 era entrata in funzione il 17 dicembre 1745 nominata da Filippo V di Borbone e cessò l’attività nel marzo del 1746. Era composta dai tre presidenti del senato e dei due magistrati camerali, dal commissario generale, dall’intendente generale dell’esercito e dai due avvocati fiscali che sedevano nella giunta del governo precedente. Altra giunta ritorna al governo il 20 marzo del 1746 (a maggio, luglio e agosto firma tre gride) e cessa la sua attività il 25 agosto dello stesso anno quando il governatore Pallavicini riassume il governo. Era la giunta mista di ministri e militari (composta dal castellano, dal grancancelliere, dai reggenti presidenti del senato e del magistrato ordinario, dal commissario generale, dal tenente maresciallo e da due fiscali e due segretari del governo e della cancelleria segreta) nominata il 22 settembre 1745 dallo stesso Pallavicini per la sua assenza, che ebbe la generale direzione del governo politico, economico e militare dello stato. Altra real giunta entra in funzione, deputata da Maria Teresa al governo centrale della Lombardia Austriaca, il 22 settembre 1753, (abbiamo gride del 3 ottobre, del 9 novembre, del 22 dicembre) per cessare il 14 gennaio 1754. Era composta dal grancancelliere, dai due presidenti del senato e del magistrato camerale, dal generale comandante delle truppe in Lombardia e da un avvocato fiscale.
Giunta economale Istituita nel 1765[65] (dispaccio del 30 novembre 1765 confermato e ampliato il 3 agosto 1767) ebbe anche il nome di "giunta per le materie ecclesiastiche e miste" e si occupò del controllo e riordinamento delle materie riguardanti la Chiesa. Munita di giurisdizione privativa ed inappellabile ad altri tribunali, giudicava le cause civili e penali (in cui almeno una delle parti fosse ecclesiastica) per tutte le materie ecclesiastiche e per quelle riguardanti il campo assistenziale, luoghi pii, confraternite, ospedali. Si doveva altresì occupare della soppressione di monasteri e confraternite inutili, della riorganizzazione delle parrocchie, della progettazione del nuovo seminario generale, del trasporto dei cimiteri fuori città e altro ancora. Il suo Piano esce il 14 luglio 1768. Nel 1784 vengono staccate dalla giunta le materie riguardanti la beneficenza con l’istituzione di una giunta apposita, quella della pie fondazioni.
Giunta per il fiume Muzza Nell’annosa causa del fiume Muzza tra il regio Fisco e gli utenti del fiume, Carlo VI destinò nel 1721 (e nel 1722) la cesarea e reale giunta a passare all’esecuzione della sentenza pronunciata dalla medesima giunta nel 1716 e ripubblicata nel 1719. Nel 1745 la ritroviamo ad occuparsi della stessa (o simile) causa e nel 1747, il 1° di novembre, con cesareo reale dispaccio la giunta fu di nuovo ristabilita da Maria Teresa sulla stessa materia.
Giunta per i fiumi Bozzente, etc. Altra giunta simile alla precedente per il fiume Muzza si occupò nel 1764 della questione dei danni causati dalla congiunzione delle acque dei tre torrenti Bozzente, Gradeluso e Fontanile di Tradate, proponendo, coll’intervento del regio Fisco, ai ricorrenti possessori dei fondi danneggiati una divisione dei costi.
Giunta urbana del censimento La giunta urbana fu costituita nel 1719 con la precipua funzione di difendere gli interessi patrimoniali del patriziato, in antagonismo con le giunte del censimento che lavoravano per rinnovare la descrizione delle persone censibili indipendentemente dal potere che le suddette persone potessero esercitare per ottenere esenzioni. I sei decurioni membri di questa giunta erano tutte persone note e influenti, esperte in diritto fiscale, le riunioni erano presiedute dal vicario di provvisione e dal luogotenente regio e vi partecipavano anche i due sindaci e i due avvocati della città con voto consultivo, svolgendo mansioni di carattere tecnico essendo esperti di diritto. Dipendendo la sua esistenza da quella della giunta del censimento, cessò di esistere nel 1757 quando la giunta di Pompeo Neri si sciolse.
Governatore Sotto la dominazione spagnola il governatore[66] (un nobile spagnolo) fu il capo supremo civile e militare dello stato, rappresentante diretto del re che lo nominava per tre anni ("governatore e capitano generale dello Stato di Milano per sua maestà"). Era l’esecutore degli ordini che provenivano dal sovrano, coordinatore delle magistrature dello Stato di Milano. Tutti i provvedimenti dovevano essere approvati da lui, anche se la proposta veniva sempre dal magistrato competente per materia che li compilava. L’autorità del governatore, e quindi la discrezionalità dei suoi poteri derivava da una delega regia: le gride emanate erano quindi vere e proprie leggi. Gli spettava, inoltre, la nomina dei funzionari e magistrati, previa consultazione con il senato, e a lui si indirizzavano le suppliche (i memoriali) dei privati e degli enti con richieste di appello contro le sentenze dei giudici. In una stessa persona continuarono a cumularsi le due cariche civile e militare anche in periodo austriaco, malgrado la tendenza accentratrice della monarchia asburgica che malvolentieri delegava ad altri la funzione di governo. In due periodi il governatorato ebbe variazioni nella sua conformazione: nel 1743 quando esigenze militari fecero affiancare al governatore un ministro plenipotenziario con incarichi politici e di governo e in seguito, dal 1° novembre 1753, quando fu nominato governatore il giovane Pietro Leopoldo d’Asburgo e successivamente il fratello Ferdinando, minorenne: fu istituita allora la carica di "amministratore di governo e capitano generale" per il duca di Modena Francesco III d’Este, che la esercitò fino al 15 ottobre 1771, anno in cui Ferdinando, divenuto maggiorenne riassunse sopra di sé le due cariche di governatore e capitano generale. Notiamo anche che se la caratteristica formale delle gride emanate dal governatore, in tutti e due i periodi spagnolo e austriaco, era stata quella di premettere in testa alla grida il nome del sovrano e in fondo la firma del governatore, con Maria Teresa si cominciano ad avere regi dispacci che vengono mandati al governatore per l’esecuzione e il governatore li pubblica o inserendoli in un suo editto o direttamente come gli arrivano da Vienna. La carica si stava svuotando della funzione rappresentativa del sovrano che l’aveva caratterizzata in periodo spagnolo, rimanendo con i soli connotati di carica diplomatica e amministrativa; fu piuttosto la figura del ministro plenipotenziario che divenne il legame diretto tra lo stato milanese e il governo centrale di Vienna. Ferdinando fu l’ultimo governatore dello Stato di Milano: nel 1796 i francesi arrivarono in Lombardia. Affiancava il governatore,
per la stesura degli atti da lui direttamente sottoscritti o solo
ordinati, la cancelleria di governo.
Grancancelliere Sotto Francesco II Sforza (editto del 18 maggio 1522) fu creata questa carica in sostituzione di quella di primo segretario dividendola da quella di presidente del senato. Durante il periodo spagnolo il grancancelliere[67], quasi sempre spagnolo con carica a vita, ma anche scelto tra il patriziato lombardo, in genere di nomina regia, fu il consigliere giuridico-politico del governatore - nella gerarchia dell’amministrazione statale era al secondo posto e aveva il diritto di precedenza nelle cerimonie pubbliche –, presiedeva il consiglio segreto, aveva la funzione di controllore nella vita dello stato, dirimendo eventuali conflitti di competenza tra le magistrature, e gli atti regi arrivavano nelle sue mani per l’esecuzione. In caso di morte o altro impedimento, lo sostituiva il presidente del senato o altri senatori. In periodo austriaco, la carica durò invariata fino al 1758[68], dopo fu sostituita da quella di ministro plenipotenziario, che ne assorbì le funzioni, affiancato da un consultore di governo per colmare la sua inesperienza di diritto locale.
Intendenza generale delle finanze La materia delle finanze era prima di competenza del Magistrato Camerale. In seguito a continue critiche sul suo operato, fu separata la materia della finanza. Con il dispaccio regio del 23 ottobre 1780 si operò il distacco del dipartimento di finanza dal magistrato suddetto che mantenne tutti gli affari riguardanti il censo, l’annona, il commercio, la soprintendenza della tesoreria generale e altro ancora ma non riguardante i rami di finanza. Il nuovo dipartimento, costituito da un intendente, un vice intendente e da pochi subalterni, fu investito dell’amministrazione delle finanze, cioè di tutti i rami riguardanti le entrate camerali. Nel 1796 il dipartimento fu soppresso e sostituito da un ispettore centrale di finanza dipendente dall’Amministrazione generale di Lombardia.
Magistrati dei redditi L’importantissimo magistrato che ha avuto la gestione di tutte le entrate dello Stato di Milano ha origine molto antica e ha avuto vita dal periodo visconteo fino a quello austriaco, pur subendo attraverso i secoli vari mutamenti di nome e di competenze e interruzioni nella sua autonomia. Un magistrato che si occupava di finanza pubblica, chiamato Magistrato delle entrate, fu istituito nel 1370 da Gian Galeazzo Visconti in sede di riordinamento dell’amministrazione pubblica; intorno al 1392 fu diviso in due rami detti rispettivamente Maestri delle entrate ordinarie, che si occupavano di problemi erariali, questioni daziarie, spese e introiti dello stato, e Maestri delle entrate straordinarie, che si occupavano dei beni del principe, dei feudi, delle condanne pecuniarie e delle questioni riguardanti le acque. Agli inizi del XVI secolo risulta in attività anche un magistrato dell’Annona, o delle Biade, come terzo magistrato. Successivamente, con il periodo spagnolo, volendosi realizzare un’amministrazione meno frammentata, si cercò di riunire i tre magistrati in uno solo: nel 1541 fu abolita la triplice divisione e si ebbe un unico magistrato con le funzioni di quelli aboliti. Ma nel 1548 per evitare la confusione che si veniva creando con l’avvicendarsi di questioni così diverse trattate dall’unico magistrato, fu staccata l’Annona che diventò l’ufficio delle Biade. Nel 1563 si cercò ancora una nuova organizzazione: si divisero di nuovo i due magistrati ordinario[69] (in calce alle gride: "Il presidente, e maestri delle regie ducali entrate ordinarie dello Stato di Milano") e straordinario[70] (in calce alle gride: "Il presidente, e questori delle regie ducali entrate straordinarie, e beni patrimoniali dello Stato di Milano") al quale fu aggregato l’ufficio delle Biade[71]. Con questa sistemazione i due magistrati[72] continueranno a svolgere i loro compiti fino al 1749 quando sotto Maria Teresa saranno nuovamente fusi in un unico magistrato dei redditi, il Magistrato Camerale[73] (in calce alle gride: "Il presidente, e questori del Magistrato camerale dello Stato di Milano") venendo abolita la distinzione di rendite ordinarie e straordinarie. Nel 1771 la magistratura fu ristrutturata e cambiò il nome in regio-ducale magistrato camerale che assunse anche le competenze del supremo consiglio d’economia che venne soppresso[74]. Vennero istituite quattro intendenze provinciali di finanza (Como, Cremona, Lodi, Pavia) e una a Milano. Nel 1780 la nuova intendenza generale di finanza tolse al regio ducale magistrato camerale il dipartimento di finanza. Nel 1786 la magistratura fu sostituita dal Consiglio di governo. I successivi sviluppi della politica austriaca e le conseguenti riforme riporteranno in vita il vecchio magistrato (1791) che con nome diverso - magistrato politico e camerale - e funzioni diverse continuò la sua attività fino al 1796. Affiancava l’attività del magistrato una cancelleria per la stesura dei documenti sottoscritti dal magistrato o da lui ordinati.
Uffici dipendenti dalla Magistratura dei redditi:
a. Un ufficio all’inizio indipendente, ma che successivamente,
con Maria Teresa, entrò a far parte del magistrato delle entrate fu quello della mezz’annata,
presieduto da un commissario. L’ufficio che amministrava la tassa[75] e
aveva sede nel palazzo ducale, rimase indipendente finché Maria Teresa lo riformò abolendo l’imposizione per gli uffici annuali
e biennali e lasciandola solo per le cariche perpetue di giustizia. b. Altro ufficio dipendente dal magistrato ordinario fu l’ufficio delle munizioni e lavoreri dello Stato di Milano[76] che aveva il compito di impedire il contrabbando d’armi e di munizioni e la frode nella fabbricazione delle stesse. L’ufficio era addetto alle forniture di guerra e ai "lavoreri", a soprintendere, cioè, ai lavori pubblici (in pratica alle fortificazioni). c. Il giudice dei dazi, già regolato dalle Novae Constitutiones[77], dipendeva dal magistrato ordinario (dal Magistrato Camerale dopo il 1749) che giudicava in grado di appello sulle cause di competenza del giudice dei dazi, era nominato dal sovrano direttamente senza l’usuale scelta da una terna, era unico in tutto lo stato e si occupava di tutte la cause connesse con i dazi di tutto lo stato[78].
Aveva un incarico biennale e alla scadenza dell’incarico doveva essere sindacato. Durante il periodo spagnolo era in vigore la pratica per cui la persona titolare dell’ufficio era come proprietaria dell’ufficio stesso, così da poterne affittare la carica. Nel 1771 il giudice dei dazi passò sotto la direzione di quel ramo del senato che sovrintendeva alle cause in materia finanziaria, ma l’opportunità di lasciare la materia daziaria nelle mani del giudice che più n’era a conoscenza portò a lasciare la giurisdizione di prima istanza al giudice dei dazi, che fu giudice privativo nel senso che la sua giurisdizione non poteva essere cumulativa con nessun altro giusdicente[79]. In particolare, i regolatori del dazio della mercanzia, che troviamo come autorità emanante, erano i controllori delle entrate relative al dazio. Li troviamo nominati molto spesso nel testo delle gride anche se raramente abbiamo atti emanati direttamente da loro. d. Il giudice delle monete[80], più volte nominato anche se non ha firmato direttamente nessun atto, dipendeva dal magistrato ordinario, durava in carica due anni (alla scadenza della carica doveva essere sindacato) e la sua competenza si estendeva per tutto lo stato: i giudici delle città minori, nominati dal governatore, si chiamavano "luogotenenti", dipendevano dal giudice di Milano e non potevano pubblicare nelle loro città le gride in materia monetaria perché se ne occupava il podestà, che si occupava anche della loro sorveglianza. Il giudice delle monete poteva emanare gride valevoli per tutto lo stato. Si ritiene che la magistratura, pur svolgendo compiti importanti e delicatissimi, non sia mai riuscita a funzionare bene: probabilmente per il fatto che i luogotenenti non erano persone professionalmente preparate, o forse perché spesso soggetti alla tentazione di raggiungere illeciti guadagni. I suoi compiti riguardavano la vigilanza sulle monete, sul peso delle monete calanti d’oro e d’argento (c’era l’uso di limarle), sulla fabbricazione delle monete false, sul commercio di quelle fuori corso o bandite, sull’esportazione di monete vietata. A lungo il giudice è potuto essere una persona qualsiasi (non occorreva neppure che fosse laureato) ma nel corso del Seicento fu obbligatorio sceglierlo tra i membri del collegio dei giureconsulti di Milano. L’intromissione di altri giudici nelle cause proprie di questa magistratura la rese attraverso gli anni inutile. In ogni caso non aveva una giurisdizione indipendente, ma dipendeva strettamente dal magistrato ordinario perfino nelle questioni attinenti alle monete o sui reati commessi dagli impiegati della zecca. Nel 1774 fu soppresso e la funzione di vigilanza sulle monete fu attribuita al supremo consiglio di economia mentre quella giudicante al giudice dei dazi a Milano e al podestà nelle altre città. e. I referendari (referendarii civitatum) erano funzionari dello stato, dipendenti dal magistrato ordinario e da esso revocabili, che avevano il controllo sulla gestione amministrativa delle città capoluogo di provincia: li troviamo infatti solo nelle città come Como, Pavia, Tortona, Cremona e Lodi. Avevano il compito d’informare il magistrato sulle gride che si pubblicavano nelle loro città, dovevano intervenire agli incanti senza prendervi parte, avevano competenza giurisdizionale limitata tra il Fisco e i privati e contro i debitori degli appaltatori. Risiedevano nelle città, ma estendevano la loro sfera d’azione in un territorio più ampio della città stessa: questa zona di competenza era chiamata "provincia".
Ministro plenipotenziario Il ministro plenipotenziario in origine fu una carica straordinaria che ricoprirono persone di rilievo[81] in occasione di necessità militari o diplomatiche. Nel 1758 alla morte del Beltrami, la carica diventò ordinaria – contemporaneamente venne abolita la carica di grancancelliere - e subito in concreto la più importante dello stato visto che erano gli anni in cui non c’era governatore ma solo l’amministratore di governo. Assisteva il governatore in tutti gli affari di governo, lo sostituiva in caso di assenza, teneva i rapporti con Vienna e la corrispondenza relativa alle cose pubbliche con gli ambasciatori imperiali e stranieri. La carica fu soppressa nel 1796.
Podestà L’istituto del podestà sembra aver origine nel 1186, subentrando definitivamente ai consoli con la fine del XII secolo. Con la dominazione spagnola si pone come prestigiosa istituzione municipale, con funzioni più statali che cittadine, accanto a quelle rappresentanti il governo centrale. A Milano il podestà aveva esteso la sua competenza non solo alla città ma anche al contado. Era un funzionario di nomina regia – scelto quindi dal governatore - dipendente dal magistrato ordinario delle cui gride era l’esecutore, dotato di funzioni amministrative (la sua funzione più rilevante fu quella di fungere da garante per l’osservanza degli ordini e gride nelle delibere del comune, per il resto sorvegliava fiere e mercati, concedeva licenze per l’esportazione delle derrate e altro ancora) e giudicanti (era giudice civile di prima istanza per Milano e suoi borghi per 10 miglia intorno ed era giudice penale per la sola città di Milano. La sua giurisdizione era cumulativa con quella del capitano di giustizia, dal quale si distingueva perché aveva la giurisdizione civile esclusiva e quella penale eccezionale. Era competente anche in materia di finanze). Durava in carica un anno, svolgeva i suoi compiti nelle città, nelle comunità e nei capi di pieve e aveva alle sue dipendenze due vicari - i giudici "del gallo" e "del cavallo" - e numerosi sbirri. Fu soppresso nel 1786 al tempo delle riforme di Giuseppe II, ma già nel 1781 le cause criminali erano diventate di esclusiva competenza del capitano di giustizia.
Senato Istituito con l’editto dell’11 novembre 1499 dal re di Francia Luigi XII, in età spagnola ebbe competenze ampliate. Le Novae Constitutiones[82] ne codificarono competenze e poteri [83]. Il senato costituiva il mezzo di collegamento con il governo di Madrid e aveva competenze di carattere politico, camerale (si occupava della materia delle imposte) e giudiziario. Per queste ultime era il supremo magistrato giudicante dello stato in materia civile e penale. In materia civile erano di sua competenza solo le cause di grande importanza, eccedenti l’ammontare di mille scudi d’oro, di solito cause tra grandi feudatari o tra feudatari e il regio Fisco; in materia criminale in prima istanza giudicava dei reati che comportassero la pena capitale o quando per gravi delitti i giudici di Milano o di altre città non avevano indizi sufficienti, o quando si trattava di un delitto la cui pena non aveva riscontri normativi. In seconda istanza, giudicava sulle sentenze emesse dal capitano di giustizia, dai collaterali, dai magistrati ordinario e straordinario, dai prefetti dell’annona e del sale, salvo per quelle sentenze che avevano per oggetto somme dovute al regio Fisco e alla camera per cui non era possibile appellarsi. Sempre in seconda istanza giudicava anche sulle sentenze emanate dai giudici ordinari e feudali. Per le sentenze da lui emesse non c’era appello, salvo il caso in cui il ricorrente potesse depositare come garanzia una certa somma in scudi d’oro da devolversi al Fisco in caso di perdita della causa! Tra i molti compiti del senato riguardanti le competenze politiche e camerali troviamo (per elencarne solo alcune): la vigilanza sopra gli ufficiali di giustizia, il sindacato sull’operato di tutti i giudici al termine del loro incarico, la concessione o la revoca ai privati di licenze e proroghe, anche modificando sentenze date precedentemente e in deroga agli stessi principi generali del diritto, l’approvazione e la conferma di lettere regie in materia di donazioni, privilegi, grazie. Ma la facoltà più importante attribuita al senato era il diritto detto di interinazione (registrazione) delle grazie, dei privilegi e degli editti[84], cioè la possibilità di rifiutare gli ordini del re o del suo rappresentante quando risultassero in contrasto con le leggi fondamentali dello stato; in altre parole, ad alcune leggi poteva venire negata efficacia nello stato mediante il rifiuto della registrazione e apposizione della formula esecutiva[85]. Questa funzione servì non poco a moderare gli abusi del governo. In seguito alle riforme del 1771, legge del 23 settembre, il senato, ridotto a dodici senatori oltre al presidente e ai due senatori pretori e diviso in due sezioni, civile e criminale, perse ogni competenza che non fosse giudiziaria. La divisione tra le funzioni amministrative e quelle giudiziarie, tanto voluta dal governo austriaco, si era attuata, e il senato era divenuto l’unica autorità competente per tutte quelle cause[86] che prima spettavano al Magistrato Camerale e al supremo consiglio di economia: il senato, in quanto tribunale supremo, emetteva sentenze definitive e inappellabili. Gli rimasero alcuni antichi diritti come, su richiesta regia, esprimere pareri su questioni importanti, anche di natura non giudiziaria, presentare terne di nomi per la nomina di alcune cariche amministrative etc. La sua composizione mutò ancora. Nel 1786 con le riforme di Giuseppe II anche il senato fu abolito: la divisione tra funzioni divenne totale con l’istituzione di un triplice grado di giurisdizione. D’altra parte anni prima, il 29 dicembre 1765, in una sua lettera al conte di Firmian il principe di Kaunitz aveva detto che "l’esperienza dimostra che per alzare una buona fabbrica bisogna atterrare la vecchia; e se non si aboliscono le Novae Constitutiones, e quell’inestricabile labirinto di statuti e leggi, in cui vanno a perdersi le sostanze di quei sudditi di sua maestà, Milano non potrà mai risorgere"[87].
Sindaci generali del ducato I sindaci generali[88] sono nominati per la prima volta nel 1560, eletti dai 65 (poi 61) anziani[89] rappresentanti del contado (congregazione generale del ducato). Nel 1599 fu attribuito loro il compito di eleggere all’interno dei 65 anziani i 18 (congregazione minore che prima era nominata dai 65) che collaboreranno con loro più strettamente. Solo con il decreto senatoriale del 20 ottobre 1595 si ebbero norme chiare sulla procedura per la loro elezione e tali norme rimasero invariate fino al 1623 (28 agosto). Nel 1694 (21 giugno) si ebbero prima ingerenze da parte del governatore che voleva assicurarsi la nomina di sindaci di suo gradimento e successivamente la riformulazione della procedura di elezione da parte della congregazione generale, procedura che rimase invariata fino al 1756. I poteri attribuiti ai sindaci furono estesi e senza limitazioni di alcun genere: la loro competenza in campo legale (requisito essenziale per l’elezione era l’essere causidico ed avere quindi pratica nell’esercizio della professione forense) li rendeva capaci di acquistare una posizione privilegiata nel valutare la situazione amministrativa e politica del ducato, e la carica vitalizia attribuiva loro profonda conoscenza delle persone e delle situazioni. Avevano la facoltà di imporre tasse, fare contratti, stabilire transazioni e avevano l’incarico di custodire tutta la documentazione del ducato. Con la riforma del 10 febbraio 1758 la congregazione del ducato fu abolita e i due sindaci in carica entrarono a far parte della congregazione del patrimonio: alla loro morte anche questa carica scomparve.
Soprintendente al governo dei marchesati di Tresana, Giovagallo e Castagnetoli Nel 1652 con la morte del marchese Guglielmo
Malaspina fu mandato a Tresana un ministro regio con pieni poteri
nella persona di Giulio Cesare Calvino, che assunse formalmente
il governo intitolando i suoi atti come "Sopraintendente generale
al governo de’ marchesati di Treggiana, Giovagallo, e Castagnetolo
per S. M. delegato da sua eccellenza". Come si può vedere, a Tresana
si unirono Giovagallo e Castagnetoli che fino ad allora erano
rimasti separati[90].
Sovrano Gli atti emanati dal sovrano direttamente sono
solo 22 e riguardano tutti il periodo austriaco iniziando dal
1713 con una Copia di un dispaccio regio in spagnolo di Carlo
VI e proseguendo con gli editti e le gride di Carlo Emanuele III
del 1733-1734 (sulle monete, sull’annona, sul teatro, sul sale)
e quindi con i rescritti, motupropri e dispacci di Maria Teresa
e di Giuseppe II dal 1767 al 1783 che sono inviati all’amministratore
di governo o al governatore per l’esecuzione nello Stato di Milano.
Da notare è la maggiore presenza del sovrano nella vita politica
dello stato, che sempre di più in modo diretto indirizza i suoi
ordini ai sudditi, e il minore rilievo della figura del governatore
che si limita a pubblicare l’ordine regio sempre di più con l’assenza
di commenti. Un caso isolato rimane una "Tariffa per il
dazio della tavola grossa della dogana di Mantova" del 1618 emanato
da Ferdinando duca di Mantova e del Monferrato, atto che pur non
appartendo allo Stato di Milano si trova nella raccolta.
Supremo consiglio d’economia Nel 1765, dispaccio del 30 novembre, fu istituito il supremo consiglio d’economia, organo indipendente da qualunque tribunale o dicastero, subordinato illimitatamente solo al governatore, al vice-governatore di Mantova, al soprintendente al censimento, e per le materie censuarie al ministro plenipotenziario. Aveva il compito di indirizzare la politica economica dello stato e riorganizzarne le finanze: la decadenza dell’economia lombarda era divenuta preoccupante e si sentiva la necessità di creare un organo nuovo che collegasse l’attività commerciale con i problemi delle imposte[91]. In materia censuaria funzionava come tribunale del censo, nelle materie economiche costituiva il tribunale supremo contro cui non era possibile ricorrere in appello, neppure attraverso il senato. Le incombenze di cui fu incaricato furono molteplici e di varia entità riguardanti riforme per lo sviluppo economico in generale, o al contrario, minuziosamente ispettive in taluni casi concreti: probabilmente fu per quello che non riuscì mai a funzionare bene. Per enumerarne alcune, aveva la direzione del censimento con la stessa autorità e poteri con i quali agiva la giunta, formava il bilancio di tutte le importazioni ed esportazioni dello stato studiando i modi con cui accrescere la produzione di materie prime, quali il lino, la seta, la lana[92], controllava i dazi, i monopoli e le privative; per queste ultime, ritenute in ogni caso dannose al commercio, si dovevano ogni tanto aprire inchieste per verificarne gli esercizi abusivi. Era anche l’organo da cui sarebbero dovuti scaturire progetti di riforme per l’annona, ossia per l’ufficio delle tratte[93], e per l’istituzione di accademie di agricoltura, arti, manifatture e commercio; nominava i due capi di piazza[94] tra i quattro "probi mercanti" eletti dalle città e terre che soprintendevano alle necessità del commercio. Avrebbe anche avuto il compito di stendere un codice, scritto in italiano, che riunisse tutte le norme statutarie e consuetudinarie in materia di commercio. Un importante risultato fu quello di aver portato a termine la redenzione delle regalie alienate attraverso i secoli ai creditori privati e pubblici della camera. Nel 1771, dopo molte critiche per l’impreparazione dei suoi membri e per, come dicevamo, l’eccesso di materie di cui doveva occuparsi, con la generale ristrutturazione delle magistrature milanesi fu abolito e le sue competenze in campo economico passarono al Magistrato Camerale, mentre quelle giudiziarie furono restituite al senato.
Ufficio della revisione dei conti L’unico atto emanato da questo ufficio attraverso
la persona di un suo giudice speciale è del 1637. Non abbiamo
notizia del suo funzionamento: tra il 1770 e il 1796 troviamo
un ufficio subalterno della camera dei conti con questo nome ma
con altra fisionomia.
Ufficio della zecca L’unico atto trovato nella raccolta emanato da questo ufficio è l’avviso del 22 agosto 1786 in materia monetaria.
Vicario e dodici di provvisione (tribunale di provvisione) L’origine di questa magistratura municipale risale al XIII secolo, ma solo con le Novae Constitutiones[95] se ne ha una codifica. La sua giurisdizione si estendeva non solo a Milano e al suo contado, ma a tutte quelle città e territori che avevano del contenzioso con Milano, mentre la sua amministrazione era limitata alla città. Aveva ampi poteri in vari ambiti, svolgendo funzioni svariate, pur nell’ambito cittadino, funzioni politiche, giudiziarie, amministrative: gli venivano sottoposte le terne dei magistrati e dei funzionari per la nomina (circa un centinaio), era giudice ordinario nelle cause civili mosse contro il comune di Milano o dal comune di Milano contro i suoi debitori, era competente in materia tributaria e di polizia (giochi illeciti), in materia di edilizia, di frodi commesse da bottegai della città e del ducato, riceveva le istanze dei cittadini per dirimere controversie, si occupava dell’ordine pubblico (per esempio alcuni reati contro il buon costume), si occupava delle attività economiche della città (ogni mese esaminava i bilanci, le entrate e le uscite del comune di Milano), delle imposte, dell’assistenza pubblica, curava l’amministrazione della cattedrale con l’arcivescovo, cercava (inutilmente) di moderare il lusso promovendo leggi suntuarie da parte del governatore, ma soprattutto si occupava della materia annonaria. Il tribunale doveva provvedere che alla città non mancassero viveri soprattutto in caso di carestia e in generale che nei magazzini cittadini non venisse mai a mancare abbondanza di grani, frutta e verdura, carni, oli e mercanzie in genere[96]. Era di competenza del vicario il curare l’abbondanza del vino, il determinarne i luoghi di vendita, il concedere licenze spesso in deroga a proibizioni: era frequente nelle gride esprimere una proibizione che in realtà era un divieto a compiere quelle attività senza licenza. Si possono individuare qui due attività: una preventiva (imposizione di calmieri, spacci di pane a buon mercato, in caso di carestia) e una repressiva (ordini che punivano[97] gli ammassi e l’intermediazione, ritenuta dannosa per il rialzo dei prezzi che ne conseguiva). Esecutore degli ordini del magistrato era il giudice delle vettovaglie: spesso le gride sono sottoscritte da ambedue. Il vicario di provvisione era il capo del municipio,
presidente del tribunale di provvisione e presidente della congregazione
di stato. In sua assenza poteva essere sostituito dall’assessore
più anziano e in mancanza di questo anche da quello più giovane.
Aveva alle sue dipendenze numerosi ufficiali[98]; dipendevano dal tribunale oltre al giudice delle vettovaglie,
il giudice delle strade e il giudice della legna che eseguivano
i suoi ordini ma che avevano poteri non solo esecutivi: per le
materie di loro competenza, partecipavano alle sedute del tribunale
con facoltà di intervento e di voto. Per lo smaltimento della
materia tributaria era affiancato dalla congregazione del patrimonio,
di cui faceva parte come rappresentante del governo insieme al
suo luogotenente. Uffici dipendenti dal Tribunale di provvisione: a. Il
commissario del fiume Olona (qui lo troviamo come conservatore del fiume
Olona) era nominato dal governatore su proposta del Consiglio dei sessanta decurioni, aveva carica biennale e dipendeva c
ontemporaneamente dal vicario di provvisione e dal Magistrato Camerale. b. Il giudice
della legna, istituito nel 1547 al posto dell’ufficio del "metero della legna", dipendeva dal tribunale di provvisione e i suoi
membri erano scelti o tra i XII di provvisione o tra persone che fossero state giudice delle strade o giudice delle vettovaglie. La sua
occupazione era di assicurare che la città fosse sempre ben rifornita di legna, di carbone e carbonine: il giudice visitava, quindi,
le "sostre", trattava con i fornitori e con i barcaioli addetti al trasporto, controllava i pesi e le misure, stabiliva le modalità di
vendita e relazionava le eventuali irregolarità al vicario di provvisione, che comminava le pene pecuniarie. La regolamentazione di questa
giudicatura era minuziosa sia per il settore riguardante l’elezione, sia per quello riguardante le mansioni del giudice e dei suoi
collaboratori, i numeratori, addetti alla misurazione delle partite di legname. Anche l’attività di questo giudice, come quella
dei giudici delle vettovaglie e delle strade, era sottoposta a sindacato da parte dei sindaci delle comunità.
c. Il giudice
delle strade[99]
era una magistratura eletta dal vicario e dai dodici di provvisione
a Milano, nelle altre città dal consiglio generale, ma sempre
nominata dal governatore (era infatti detto "regio") e gerarchicamente
sottoposta al magistrato straordinario (poi al Magistrato Camerale).
Ha le sue fonti in leggi locali (gli statuti cittadini), in leggi
generali (le Novae Constitutiones[100]),
e in regolamenti generali emanati più volte dai singoli governatori
(le gride generali[101]).
Spesso gli stessi ordini
contenuti negli statuti formavano l’oggetto di gride emanate in
materia: probabilmente lo scopo era di rendere tali ordini valevoli
per tutto lo stato e non solo per il territorio della città e
sua provincia (il riportare uno statuto municipale in una grida
generale significava abrogare la norma statutaria e ampliarne
la valenza per tutto lo stato).
Il giudice durava in carica un anno, solo in seguito diventò biennale. La sua competenza si estendeva per tutto il territorio soggetto alla città e la sua autorità gerarchica immediatamente superiore era il magistrato straordinario (poi il magistrato camerale), anche se era il tribunale di provvisione che giudicava in appello sulle sue sentenze. Un importante compito era quello di compilare il riparto delle "fatte", cioè delle tratte di strada la cui manutenzione spettava al contado milanese ("strada di fatta")[102]. La sua funzione era essenzialmente quella di provvedere alla manutenzione delle strade[103], dei ponti, degli argini, dei tomboni, dei fossi, anche se le spese di questa manutenzione, almeno per gran parte del periodo da noi trattato,[104] fu interamente a carico dei privati, dei comuni, degli enti interessati e mai dello stato[105]. Ovviamente questo comportava non solo strade mal tenute, ma continue risse ed estorsioni tra cittadini e subalterni dei giudici per riscuotere le somme dovute per multe o spese. Si occupava anche delle strade cittadine, cercando di rimuovere gli ostacoli alla viabilità: ammassi di immondezze e letame, banchi di lavoro sulla strada, imposte aperte, inferriate rotte delle cantine (sul piano della strada), acque sporche gettate da case e osterie nella strada e altro ancora[106]. Il giudice faceva una visita all’anno di persona per verificare la situazione, dopo il maggio e prima di settembre: le strade reali, quelle di grande collegamento dello stato, dovevano essere completamente aggiustate entro la fine di giugno, le vicinali non erano di sua competenza ma solo degl’interessati, e le strade maestre, quelle che univano una "villa" all’altra nei luoghi più frequentati, dovevano essere riparate a luglio. Nel 1777, dispaccio del 13 febbraio, le strade sono divise in tre classi (strade regie o provinciali, strade comunali, strade private) e tutta la materia riguardante le strade di cui abbiamo detto, oltre al decoro della città di Milano, alle licenze per l’occupazione di spazi pubblici, ai permessi di sopraelevazione, diventano di competenza esclusiva del giudice delle strade.
Con Giuseppe II abbiamo un interessante regolamento (6 aprile
1784)[107]
con cui si promuovono appalti per la manutenzione delle strade
(che rimangono con la divisione di cui sopra), si disciplina
l’espropriazione forzata per pubblica utilità oltre a tutta una
normativa che riguarda il decoro di Milano, la sopraelevazione
delle case, i pericolosi vasi da fiori alle finestre e altro ancora.
Nel 1786 la magistratura fu trasformata e si ebbe invece un delegato provinciale per lo svolgimento dei compiti che erano stati del giudice delle strade. d. Il giudice delle vettovaglie (anch’esso "regio") era una magistratura civica emanazione del corpo civico da cui dipendeva, collegato al tribunale di provvisione dei cui atti era (ricordiamo) solo l’esecutore; la sua nomina era sottoposta al governatore e la sua attività si svolgeva sempre a vantaggio della città e territorio dove esercitava le sue funzioni e su cui aveva la giurisdizione privativa. Come per il giudice delle strade, era regolato da leggi generali, quali le Novae Constitutiones[108] e le gride emanate quando occorresse e da leggi particolari come gli statuti locali. I suoi compiti si dirigevano su due fronti: provvedere alla salute dei cittadini, quindi sorveglianza sui viveri della città con i divieti di vendita delle carni di animali ammalati o morti di malattia; con le regole per la macellazione e conservazione della carne (i macellai dovevano ammazzare le bestie nei loro negozi e in pubblico) e per l’esposizione sul banco di vendita e altro ancora. Anche i fieni non dovevano mancare ai cavalli della città, soprattutto a quelli dei soldati e non dovevano rincarare: quindi, perché non scarseggiassero i suddetti fieni, le mandrie avevano il divieto di pascolare entro le cinque miglia dalla città di Milano. L’altro compito riguardava, invece, la stabilità dei prezzi e la correttezza del peso della merce venduta: le vettovaglie dovevano essere a buon prezzo e il controllo sull’osservanza delle "mete" (calmieri) da parte dei prestinai era continuo. Le mete dovevano nei forni e nei macelli essere chiaramente esposte in modo che tutti potessero vederle, erano invece mal viste tutte le intermediazioni (i "recattoni" che compravano le bestie dai contadini e le rivendevano ai macellai, che per di più spesso ne vendevano parti scadenti ad alto prezzo, e così per la frutta e verdura) che potevano solo far salire i prezzi; era in genere mal vista ogni raffinatezza che potesse generare confusione nei prezzi dei generi di prima necessità come i pani speciali (pane al burro) che erano venduti fuori meta etc. Le pene erano severe: multe, tratti di corda, galera. E ancora: gli osti dovevano far bollare le misure di vetro per il vino e aceto che vendevano ai consumatori, i foderi delle spade (strano che se ne occupassero quelli delle vettovaglie!) dovevano essere di cuoio buono, le salsicce (le "luganiche") di puro suino e non di manzo e potremmo continuare ancora. Il suo operato era soggetto a sindacato da parte dei sindaci delle comunità. Nel 1786 fu abolito come magistratura giudicante, gli rimasero solo le competenze amministrative col nome di delegato provinciale. |
6. La lingua delle gride milanesi
Le gride della raccolta sono
scritte generalmente in italiano, alcune (pochissime) sono in
spagnolo o in tedesco[109].
La necessità per questo tipo di legislazione di essere immediatamente
recepita dal destinatario è essenziale: nessuna dotta dissertazione
sarebbe stata utile per un tipo di scritto che era opportuno che
raggiungesse immediatamente il suddito che doveva pagare tasse
o tenere i comportamenti prescritti: fra l’altro il mercante,
il possidente, il contadino avevano una loro lingua (il dialetto
lombardo) che era già diversa dall’italiano scritto, lingua colta
ma tuttavia comprensibile: per questo le gride sono piene di una
terminologia assolutamente locale molto interessante. Dunque il
predominio dell’italiano[110]
(o comunque di lingue volgari) sul latino in questo campo è assolutamente
ovvio tenuto conto dei destinatari degli atti: i banditori che
affiggevano i bandi ai cantoni nelle piazze dopo averli "gridati"
non avrebbero potuto svolgere la loro funzione di pubblicazione
della legge se questa fosse stata scritta in una lingua incomprensibile
e quindi non recepibile dai sudditi. A Milano la lingua italiana aveva già al tempo
delle Novae Constitutiones,
pur scritte in latino, iniziato a conquistare il campo del diritto:
quando troviamo scritto con frequenza ut
vulgo dicitur[111]
latinizzando l’espressione volgare e accogliendola quindi come
tecnicismo, si dà all’espressione volgare, a volte dialettale,
dignità di lingua del diritto. Questa intrusione di parole e costrutti
volgari era giustificata qui non solo per il solito motivo che il linguaggio
del legislatore doveva essere comprensibile agli operatori del
diritto e ai destinatari del diritto stesso, ma anche perché certe
parole potevano essere latinizzate ma non tradotte in latino senza
mutare nella traduzione il loro significato peculiare. I tempi
diversi costringevano a prendere in esame casi e situazioni nuove
e la lingua usata si piegava alle nuove esigenze. E questa è chiara
dimostrazione che la lingua, in particolare quella giuridica,
non è cosa fissa e rigida, ma cosa mobile e flessibile che continuamente
si evolve creando nuove parole e nuovi costrutti e sempre trovando
nel caso concreto la fonte della sua esistenza. Per le gride possiamo dire che il linguaggio
non è quasi mai tecnico ma è semplice e facile alla comprensione:
la lingua legislativa dei bandi, che deve essere recepita con
chiarezza da tutti, non svolge ragionamenti, non definisce istituti
giuridici, non fa discorsi creati per interpretare e sviscerare
una volontà nascosta nella legge, ma è essa stessa la norma, che
può anche essere ritenuta oscura nell’applicazione al caso pratico
ma che si presenta sempre in modo discorsivo e semplice. La lingua
legislativa delle gride non va quindi confusa con quella del giurista
tesa a ragionare sopra la norma per interpretarla, ricondurla
a figure giuridiche prefissate e renderla quindi applicabile al
caso concreto, e neppure va confusa con quella delle Novae
Constitutiones che si differenziano non solo perché sono
in latino ma soprattutto perché definiscono magistrature, istituti
giuridici, reati, in genere ambiti di regolamentazione prefissati
e astratti: qui invece si danno ordini derivanti da situazioni
concrete, spesso urgenti, spesso ripetitive negli anni, ma sempre
sopravvenute al momento. I casi di interpretazione autentica mantengono,
pur nei chiarimenti dati, lo stesso tono di lessico comune[112].
Lo stesso possiamo dire per le frequenti rinnovazioni: essendo
il linguaggio legislativo estremamente conservativo, la grida
rinnovata è in realtà la ripubblicazione esatta del testo della
grida stessa, i discorsi giuridici, quindi, non subiscono variazioni.
Possiamo dire che specialmente nel XVII secolo la legislazione
mancò di originalità di contenuto e di forma linguistica: in effetti
i bandi furono numerosi ma terribilmente ripetitivi. |
7. La tipologia dei documenti legislativi
Come dicevamo, nello Stato
di Milano i vari organi avevano potestà normative e giudicanti
loro attribuite per un numero molteplice di casi a tempo indeterminato
e per le materie di loro competenza. Finché il governatore fu
il capo civile e militare dello stato, diretto rappresentante
del sovrano, la potestà normativa degli organi fu subordinata
gerarchicamente a quella del governatore[113]
che legiferava per il sovrano e quindi le norme emanate dagli
organi erano in certo senso emanate anch’esse dal governatore
essendo gli organi a lui subordinati[114].
Al suo interno l’organo può apportare modifiche e cambiamenti
alle norme relative alle questioni di sua competenza con i limiti
già accennati di sovrapposizioni di organi diversi che legiferano
o giudicano sulla stessa materia. Ciò premesso, gli atti emanati da governatore
o magistrature possono essere di due tipi: l’atto emanato per
il caso concreto in seguito a sopravvenute esigenze immediate
e l’atto più generale che riunisce le disposizioni di più atti
singoli e che tende alla regolamentazione organica dell’intera
materia. Esaminando quelli del primo tipo, si nota subito
la rilevante quantità di denominazioni con cui gli atti legislativi
(e non) appaiono, prendendo atti apparentemente simili nomi diversi. Le magistrature emanano di volta in volta (qui
elencati in ordine alfabetico) attestazioni,
avvisi, bandi,
capitoli, cedole,
circolari, concessioni,
concordati, decreti,
determinazioni, dichiarazioni,
dispacci, editti,
gride, istruzioni,
lettere, licenze,
motupropri, notificazioni,
ordini, patenti,
prammatiche, proclami,
raccolte, regolamenti,
regole, rescritti,
sentenze, strumenti,
tabelle, tariffe.
Se si escludono quelle dizioni che indicano il contenuto[115]
del provvedimento più che il suo genere, ma che abbiamo adottato
in quanto sono formalmente tipiche e non riconducibili ai generi
consueti (capitoli, tabelle,
tariffe) o che sono estremamente
generiche (determinazioni)
o indicanti atti notarili (strumenti),
rimangono 26 tipi di provvedimenti[116]
che spesso si ha la sensazione che si equivalgano e che siano
state usate dizioni diverse senza un vero motivo. Viene il dubbio che per molti atti sia assolutamente
casuale l’essere denominati in un modo o in un altro e che non
vi sia in realtà una sorta di tipizzazione, almeno nell’ambito
di una stessa materia o di una stessa magistratura. Il dubbio,
insomma, è se ci sia una tipologia che faccia corrispondere allo
stesso nome provvedimenti sostanzialmente uguali aventi la stessa
forza cogente o se, al contrario, non vi sia alcuna specializzazione
nei vari generi di deliberazioni e quindi si possa dire che le
denominazioni siano intercambiabili. Come dice l’Aliani, quando
un organo disciplina materie di sua competenza si può pensare
che differenzierà i provvedimenti operando una differenziazione
di denominazione a seconda del genere di normatività del provvedimento
o a seconda delle materie trattate, in base ad un’analogia fra
documenti dello stesso tipo anche se non in base a norme di diritto[117].
Quindi bisogna partire dal presupposto che la sensazione d’intercambiabilità
non corrisponda al vero e che sia possibile distinguere una denominazione
da un’altra, anche se in modo non troppo rigoroso. Non resta quindi
che svolgere un minimo di analisi sul nostro materiale per poter
tentare di trarre un minimo di conclusioni in materia.
Attestazione:
si testimonia l’esattezza della verità di un fatto. La denominazione
non è mai espressa come tale, ma si ricorre nel testo alle parole
"faccio fede io ...". Avviso:
si vuole portare a conoscenza del pubblico o di una certa categoria
di persone un’informazione che li riguarda o che potrebbe riguardarli
(per esempio: tutti quelli che desiderano fabbricare pane nell’anno
in corso devono presentare domanda, gli esenti dai tributi di
vino e carne devono presentarsi ad un certo ufficiale per averne
il rimborso, il mercato dei cavalli ritorna a Porta Ticinese etc.).
Questi atti tendono soprattutto a informare, anche se dietro c’è
una norma da seguire e di solito non contengono sanzioni[118]. Simili agli avvisi sono le cedole:
si tratta di un tipo di avviso di vendite o affitti di appalti,
che venivano messi all’asta, per rendere noti alle persone interessate
il giorno, l’ora e il luogo dove si sarebbe svolto l’avvenimento
e il preciso oggetto dell’asta: affitto per la durata di un certo
numero di anni o vendita della regalia. Bando: "bando"[119]
è una denominazione equivoca usata spesso nell’ambito della sanità
come "messa al bando". Difficile in questo ambito è lo stabilire
quando significa "legge bandita" (e quindi bando
è il genere del provvedimento) e quando invece assume il significato
di cui si parlava prima ("... hanno stabilito di far pubblicare
il seguente bando"). In ambito sanitario era usato soprattutto
nelle materie che riguardavano la libera circolazione delle persone
o l’allevamento dei "vermi da seta". Il bando, genere usato soprattutto
dal governatore[120],
contiene ordini ed essenzialmente divieti e la denominazione sembra,
almeno nell’ambito della sanità, essere stata soprattutto usata
per specifiche materie come la libera circolazione delle persone
in tempo di quarantena o per vietare l’allevamento dei vermi da
seta in città. Si ha la sensazione che il bando
non sia un genere con significato molto preciso e particolare,
ma che equivalga a proclama o grida e che venga usato indifferentemente
con gli altri due. Concordato:
nell’ambito degli accordi troviamo un concordato stabilito tra Milano e la Santa Sede per regolare le relazioni
reciproche e una capitolazione
con gli Svizzeri. Dubbio è se sia realmente un accordo il patto
concesso agli speditori di Como: è stato da noi considerato una
tariffa stabilita forse in accordo con gli "speditori".
Decreto:
penso che questo genere non abbia connotati precisi e che sia
stato spesso usato al posto di editto. Connotati più precisi sembra
averli nel caso che sia la decisione che il governatore prende
in risposta a suppliche o memoriali presentati da persone che
chiedono provvedimenti su una certa questione. In realtà avremmo
dovuto più propriamente parlare in questi casi di "rescritto"
in quanto così si chiamavano le risposte date da un’autorità ad
una istanza, ad una supplica, anche perché la risposta veniva
spesso data in calce al foglio stesso contenente la supplica,
come qui avviene. Ma il termine non è mai usato in epoca spagnola
sia per le risposte del governatore che di quelle dei magistrati:
si è quindi preferito limitarci ad un termine meno specifico,
più ambivalente. Dichiarazione:
le dichiarazioni sono atti con cui l’autorità chiarisce l’interpretazione
di propri atti legislativi che presentano parti mal comprensibili
(interpretazione autentica). Dispaccio:
i dispacci erano lettere con cui il sovrano austriaco direttamente
inviava ordini al governatore perché fossero pubblicati nello
Stato di Milano e posti in esecuzione (generalmente gli editti
venivano inviati ai sudditi attraverso il governatore non direttamente
dal re). Grida:
la grida[121]
è il provvedimento più usato come genere e non si differenzia
dall’editto[122]
se non nella forza psicologicamente più cogente di quest’ultimo
(spesso un atto intitolato grida
viene chiamato editto nel
testo). Ambedue contenevano prevalentemente ordini (comandano
che niuno ...) o concessioni, comminavano sanzioni e si
rivolgevano di volta in volta ad una pluralità generica di persone
o a categorie di persone destinatarie dell’atto. La grida era
in definitiva il provvedimento che aveva il più ampio raggio di
destinatari. Solo dopo aver espresso il comando si passava a vietare
questo o quel comportamento (la tale persona "non ardisca ...").
Si parla in tre casi di editto proibitivo
e in tre casi di proibizione
nell’ambito della sanità, ma sembra che la dizione non abbia avuto
seguito nella generalità delle materie.
Un tipo particolare di grida erano le cosiddette gride
generali, che erano provvedimenti generali che tendevano
a riassumere l’intera materia facendo riferimento a norme passate
e perdendo la forma di foglio volante[123]
per assumere quella di un atto legislativo più corposo. La grida
generale nasce da esigenze diverse: mentre la grida "particolare"
doveva rispondere ad un’esigenza del momento, la grida generale
era una legge che provvedeva al riordino di una materia di competenza
di un magistrato (le biade, i sali, la mercanzia, la sanità etc.). Istruzione:
le istruzioni, simili come genere alle regole, hanno forza cogente
anche se espressa talvolta in modo blando[124],
in quanto si presentano quasi sempre come direttive specifiche
impartite da un’autorità superiore ad una inferiore: ne sono un
esempio le istruzioni del magistrato ai deputati di sanità per
le quarantene, ai gentiluomini eletti per la soprintendenza alle
porte, ai cancellieri sulla materia delle notificazioni dei grani
etc. Si differenziano dalle regole
in quanto queste sono date anche ai sudditi o ad ufficiali decisamente
subalterni e così vediamo le regole ai panettieri sulla fabbricazione
e vendita del pane, ai mastri di posta per le lettere che devono
essere esenti da affrancatura, alle navazze stercorarie sulle
ore permesse per l’ingresso in città etc.[125].
Lettera:
le lettere sono comunicazioni tra un’autorità (per esempio l’abate
del collegio dei medici) e un’altra superiore per chiedere provvedimenti
nell’ambito di competenza della prima. Oppure, al contrario, sono
le lettere del sovrano (lettere regie) che vengono inviate al
governatore affinché dia loro esecuzione. Nel sec. XVIII qui prendono
il nome di "dispacci". Altri tipi di lettere sono:
1. la Lettera
circolare o circolare
che sono lettere redatte in più esemplari con cui s’impartiscono
direttive ad una pluralità di autorità subordinate. Questa denominazione
appare nella seconda metà del Settecento e viene usata quando
una regola di condotta deve essere portata a conoscenza del maggior
numero di persone appartenenti a certe categorie (cancellieri,
recettori, superiori di monasteri), a volte anche per chiarire
l’interpretazione di una legge[126].
Spesso il foglio ha spazi lasciati in bianco, da riempire a mano
per potere essere puntualmente inviato.
2. la Lettera
patente o patente: può essere un provvedimento che emana
una norma generale di carattere legislativo oppure un atto amministrativo
con cui si concede a qualcuno l’autorizzazione a svolgere una
determinata attività. Qui lo troviamo con questo secondo significato
solo verso la metà del XVIII secolo. Licenza:
anche questa equivale a permesso, autorizzazione a svolgere determinate
attività e la troviamo nello stesso periodo della precedente. Motuproprio:
è un atto di normazione primaria (e di contenuto, a seconda
dei casi, legislativo o amministrativo) emesso da un sovrano
ufficialmente di propria iniziativa anziché in risposta ad una
richiesta ufficiale della parte interessata[127].
Ne abbiamo tre del 1767. Notificazione:
anche questa denominazione appare nella seconda metà del Settecento
relativa soprattutto ad atti dell’intendenza delle finanze o del
magistrato camerale. È usata al posto di "manifesto, bando ufficiale,
affisso pubblicamente per generale notizia"[128].
Ordine:
l’ordine sembra essere stato sempre un provvedimento esprimente
un comando, ma un comando, o una serie di comandi specifici, puntuali,
diretti a persone o a categorie precise di persone come gli assistenti
alle porte, i barcaioli sui laghi, il cancelliere del libro dei
morti, i postari alle poste sul pedaggio per l’entrata delle bestie,
gli osti e bettolinieri etc. A volte però è chiamato nel testo
ordine un provvedimento non
così rispondente alla definizione data e il termine è usato nel
senso generico di "disposizione". Prammatica:
l’unico provvedimento legislativo così chiamato è emanato dal
governatore in materia di censi e non sembra essere strutturalmente
diverso dagli editti e dalle gride emanati in tutti gli altri
casi. Proclama:
anche questo termine sembra essere stato usato come sinonimo di
bando. Ne abbiamo solo due esempi nel 1736 e nel 1771. Forse,
usandolo, si vuole comunicare l’idea dell’urgenza e della diffusione
diretta alla generalità dei sudditi. Regolamento:
anche qui la parola è usata talvolta in senso generico (due atti
del 1758 e 1771) e in altri casi nel senso di insieme di norme
che disciplinano in modo organico una certa materia. Rescritto:
in uno dei due casi in cui il genere è usato si tratta della risposta
data dal sovrano alla supplica che gli è stata presentata. Per
analogia è stato chiamato rescritto altro atto simile. Nell’altro
caso un dispaccio di Maria Teresa è chiamato rescritto
all’interno del testo, con valore di decisione vincolante. Sentenza:
figura un solo caso di sentenza. Altro fenomeno rilevante è quello della rinnovazione
delle gride: una grida emanata da una magistratura spesso veniva
rinnovata anche se erano passati molti anni e anche se la magistratura
aveva subito cambiamenti. La grida rinnovata veniva ripubblicata
per intero o in parte e la motivazione era il persistere di una
situazione da correggere oppure l’aver constatato da parte dell’organo
emanante che l’ordine era stato disatteso fino dall’inizio da
parte dei destinatari, malgrado la risolutezza nell’espressione
del comando e malgrado la minaccia di una dura pena. A volte questo
disattendere le leggi avveniva per ignoranza della loro stessa
esistenza e forse anche a causa della farraginosa mole di gride
mai riordinate[129]. La rinnovazione poteva essere espressa in modo
direi quasi fotografico (si riporta integralmente il testo della
grida, la data e i sottoscrittori) o poteva essere implicita (si
richiama o non si richiama una grida precedente ma se ne riporta
il testo integralmente o parzialmente). Nello stesso atto si ha
visivamente il ripetersi di atti uguali nel contenuto e nella
forma attraverso gli anni e a volte una grida contiene la rinnovazione
di un’altra che contiene la rinnovazione di un’altra come in un
gioco di scatole cinesi! La rinnovazione di una grida non va confusa
con la sua riedizione : la rinnovazione è di per sé un nuovo atto
normativo anche quando ripete pedissequamente un atto precedente
e non si presenta innovativo nel contenuto, nella forma, nel linguaggio.
Le riedizioni sono molto rare[130]
e solo in qualche caso si può parlare di riedizione: anche per
atti identici aventi la stessa data ma piccole aggiunte nel contenuto
è veramente difficile parlare di riedizione e non di due atti
normativi autonomi anche se simili nel contenuto. La formalità
dell’atto collegata con un certo contenuto, unita al privilegio
di stampa attribuito ad un certo stampatore, esclude di per sé
quel concetto di riedizione proprio di composizioni a carattere
letterario o lo rende molto raro: in certi casi possiamo semmai
parlare di ristampa. |
8. La struttura delle gride La grida milanese (qui uso la denominazione <grida> come generica per tutti gli atti legislativi emanati) si presenta di solito come manifesto, salvo i casi delle gride generali o altre regolamentazioni composte di più pagine che rispondevano ad una esigenza diversa. Porta in alto lo stemma, a volte (rare) ha un titolo, segue il testo. Quest’ultimo si compone di un preambolo, di una parte centrale che contiene il contenuto giuridico della grida, e di una parte finale. Nella gran maggioranza dei casi il testo è sottoscritto dall’autorità emanante (al centro del foglio), o dal presidente della magistratura o dal grancancelliere (a sinistra) e dal cancelliere o dal segretario della magistratura (a destra). L’autorità può figurare anche in alto prima del testo soprattutto per le gride del governatore che sono firmate da lui ma che iniziano subito col nome del sovrano (ricordiamoci che il governatore legiferava per suo conto). Il foglio ha in fine le note tipografiche (luogo di stampa, stampatore e l’eventuale data di stampa) separate dal testo da una linea. Il titolo della grida, quando vi sia (ed è raro), riassume in parte il contenuto di essa, affermando subito la tipologia dell’atto, la materia di cui si tratterà e i destinatari del provvedimento (o solo alcuni di questi elementi); a volte, quando manca, c’è il nome della magistratura in caratteri evidenziati o i destinatari dell’atto o la data o assolutamente niente. Nel preambolo l’autorità emanante dà conto delle motivazioni – di fatto e di diritto – che hanno condotto all’emanazione del provvedimento. A volte lamenta ordini passati troppo disattesi, a volte nomina il suddito (di solito un "impresario") che ha fatto richiesta per ottenere una grida che lo aiuti a tutelare i suoi diritti (molte gride sono emanate su richiesta di parte), a volte spiega la situazione contingente che ha determinato l’emanazione della grida (una malattia contagiosa, la carestia, il contrabbando di generi di sostentamento o generi la cui fabbricazione e vendita è stata appaltata etc.), a volte dice di rinnovare altre gride o parte di esse, e così via sempre spiegando e motivando. Segue il contenuto giuridico dell’atto che contiene il precetto, cioè le disposizioni e i destinatari della grida, a volte anche un chiarimento del significato di alcuni termini usati nell’atto stesso. Di solito nel foglio volante le disposizioni differenti sono divise in base a capoversi, laddove nei documenti più corposi sono divise in articoli numerati. Spesso alla fine di ogni articolo o capoverso è esposta la pena comminata per la trasgressione di quel singolo ordine, ripetendo ogni volta la formulazione della pena anche se la materia è la stessa ed anche se la pena è la medesima. La magistratura collegiale dispone parlando variamente in terza persona, singolare o plurale (<il magistrato ordina>, oppure <si ordina>, oppure < i Conservatori comandano> o in prima persona plurale <comandiamo>); anche il governatore parla in terza persona, ma se è proprio lui, e non la cancelleria, a emanare il provvedimento, firma in calce alla grida. Tutto questo dimostra come anche le gride in foglio volante cercassero una propria struttura tipica, malgrado il loro aspetto casuale e talvolta trascurato, che si mantiene pressoché inalterato nel corso dei secoli. |
9. In conclusione
Il progetto che mirava alla pubblicazione della legislazione italiana preunitaria ha avuto anche lo scopo di presentare un modo per rendere conoscibile l’ampio materiale legislativo che si trova sugli scaffali delle biblioteche e degli archivi o nascosto in magazzini e non ancora consultabile, rilegato o posto in scatole. Per lo storico, giurista o no, per la persona curiosa e interessata alle vecchie cose, per lo studioso, insomma, chiunque esso sia, penso che il poter leggere direttamente un documento senza cercarlo affannosamente fra migliaia di altri (e forse non trovarlo) possa essere cosa utile per la conoscenza del diritto e della società antica. Altri modi per raggiungere lo scopo non possono a parer nostro essere davvero presi in considerazione (pubblicare solo bibliografie, o bibliografie con regesto della legge, o leggi memorizzate) perché incompleti o troppo costosi, in ultima analisi insoddisfacenti. L’ipotesi qui adottata di collegare il documento bibliografico alla fotografia del testo della legge potrebbe essere la soluzione ottimale anche perché il documento bibliografico con i suoi indici e con i suoi campi interrogabili agevolerebbe non poco l’individuazione del documento cercato che potrebbe essere così direttamente consultato. Forse l’avvento del mezzo elettronico ha davvero risolto il problema. Il Visconti nel 1913[131] (erano pochi decenni che l’Italia era unita) scriveva: "se nelle capitali degli antichi Stati, in cui l’Italia fu per tanti secoli divisa, si iniziassero sistematiche ricerche intorno alla organizzazione amministrativa dello stato nel periodo che va dalla fine del secolo XVI alla fine del secolo XVIII, noi troveremmo la soluzione di molti problemi che si affacciano ora nel diritto pubblico moderno; noi avremmo la spiegazione di tanti fenomeni della vita sociale contemporanea: noi avremmo in poche parole un quadro completo della storia del diritto pubblico italiano nel periodo moderno". Forse quelle considerazioni potrebbero in parte valere anche oggi. |
Note:
[1]Nato per iniziativa ed impulso del prof. Piero Fiorelli, primo direttore dell'Opera del Vocabolario Giuridico Italiano, poi Istituto per la Documentazione Giuridica del CNR (IDG). [2] Sono stati pubblicati a stampa (Firenze, Olschki, 1978-1993) i 4 tomi in 8 volumi della Bibliografia. Testi statutari e dottrinali dal 1470 al 1800 (Bibliografia cronologica a cura di T. BIGAZZI MARTINI, M. CASO CHIMENTI, F. GIOVANNELLI ONIDA, M. C. VIGNI PECCHIOLI, + Indici a cura delle stesse e di L. PAPINI). Su CD-Rom la Bibliografia è uscita nel 1999 (Napoli, ESI) a cura di F. GIOVANNELLI ONIDA, interamente rivista, ampliata con nuovi documenti, corredata delle immagini di alcuni frontespizi e di un lemmario. I requisiti per l’accoglimento di un’opera nella Bibliografia erano essenzialmente quattro: l’opera doveva essere un’edizione, quindi a stampa, doveva presentare l’elemento essenziale della giuridicità, doveva essere scritta in lingua italiana totalmente o parzialmente ed essere un’edizione antica (stampata entro l’anno 1800). Per una più dettagliata esposizione e chiarimento dei criteri si rimanda all’Introduzione di E. SPAGNESI alla Bibliografia delle edizioni giuridiche antiche in lingua italiana. Testi statutari e dottrinali dal 1470 al 1700, Firenze, Olschki, 1978 e alle Considerazioni e note sulla Bibliografia di F. GIOVANNELLI ONIDA, nel CD-Rom sopra citato. [3] Il vocabolario non sarà pubblicato a stampa, ma verrà sostituito da un Indice semantico per il lessico giuridico italiano (IS-LeGI), che, presumibilmente entro il 2008, renderà consultabili attraverso Internet non solo gli Archivi creati a tale scopo ma anche, via via che saranno redatti, i lemmi con i loro significati. Attualmente per avere informazioni sulla storia e sul significato dei termini giuridici si possono consultare separatamente due Archivi: LLI, che comprende in testo integrale le maggiori opere legislative dal 1539 ai giorni nostri; VOCANET, che, attraverso immagini digitali, mostra documenti di dottrina, legislazione e prassi dal 960 al 1974. [4] Per lo Stato di Milano sono già state pubblicate le Gride dei Conservatori della sanità dello Stato di Milano (periodo del predominio spagnolo) a cura di F. GIOVANNELLI ONIDA - E. MARINAI, Napoli, ESI, 2001 su CD-Rom + Manuale contenente Introduzione e Avvertenze. Per uno studio più completo sulla legislazione principesca milanese e per le numerose edizioni di gridari possedute a Firenze e altrove cfr. P. DEL GIUDICE, Storia del diritto italiano, Milano, U. Hoepli, 1923-27 (rist. anast. Francoforte-Firenze, 1969), vol. II, p. 28 ed anche la Bibliografia delle edizioni giuridiche antiche cit. [5] La raccolta ha come collocazione 43.E.1. Cfr. P. DEL GIUDICE, Storia del diritto italiano, Milano, U. Hoepli, 1923-27 (rist. anast. Francoforte-Firenze, 1969), vol. II, p. 28. [6] La divisione per magistrature non corrisponde né ad una ripartizione sistematica secondo i poteri dello stato né ad una divisione per materie, come vedremo oltre. Troveremo nella nostra raccolta atti emanati anche da altre autorità quali quelli emanati da università di artigiani (università dei maniscalchi), da collegi professionali (collegio dei medici), da abati di monasteri, vincolanti per la comunità o associazione a cui appartenevano o autorizzati dal magistrato competente. Spesso il legislatore è direttamente lo stesso sovrano. [7] Nella Bibliografia abbiamo registrato solo 4386 documenti, avendo tolto quelli doppi e i manoscritti. [8] Vedi l’introduzione alle Gride dei Conservatori cit. su CD-Rom. [9] La grida del 21 giugno 1756 stranamente rivela forse una nuova sensibilità (o cos’altro, altrimenti?) e proibisce a Saronno l’uso della carne dei cavalli "in quanto ripugnante al buon costume dell’umano vivere ... per la natura di esse bestie". [10] "... un ordigno di più telari congegnati insieme per fabbricare in un tempo stesso più nastri con un solo moto, ed una sola mano, ..." (editto del 9 novembre 1753). [11] In una interessante quanto inusitata grida del governatore Juan Fernández de Velasco y Tobar il 24 aprile 1599, riportata dal VISCONTI (L’amministrazione cit., p. 266-267) e comunque riprodotta nel Bando generale sui risi del 1662 posseduto dalla nostra raccolta, si tenta di stilare una specie di contratto (potremmo chiamarlo un embrione di contratto collettivo) per i lavoratori delle risaie. La grida prende lo spunto dalle "barbare crudeltà" operate contro quei ragazzi che al tempo della monda dei risi vengono convinti dai capi dei risaroli a lavorare e che vengono poi trattati come schiavi con percosse e mancato nutrimento fino a condurli alla morte "miserabilmente nelle cassine, o nei campi circonvicini senza aiuto". È per fermare questo "macello" che viene emanata la grida dove viene data una sorta di disciplina giuridica per quegli operai che lavoravano nelle risaie e che non erano, come gli artigiani, protetti da corporazioni o fratellanze. [12] Le notizie sono state esclusivamente e integralmente, con l’eccezione ovviamente dei testi di volta in volta citati, tratte da F. ARESE, Le supreme cariche del ducato di Milano da Francesco Sforza a Filippo V, in <Archivio storico lombardo>, serie IX, vol. IX (1970), pp. 59-156; F. ARESE, Le supreme cariche del ducato di Milano e della Lombardia Austriaca 1706-1796, in <Archivio storico lombardo>, serie X, vol. V (1979-1980), pp. 535-598; Le istituzioni storiche del territorio lombardo XIV-XIX secolo, Milano, (progetto Civita), Milano, Regione Lombardia, 2000, consultabile anche in rete; A. ANNONI, Stato di Milano (Dominio Asburgico) (1535-1748) e Lombardia Austriaca (1749-1796), Milano, Antonino Giuffrè, 1966; D. SELLA - C. CAPRA, Il ducato di Milano dal 1535 al 1796 in <Storia d’Italia>, vol. 11, Torino, UTET, 1984 (da segnalare l’ampia bibliografia citata in calce all’opera); S. PUGLIESE, Condizioni economiche e finanziarie della Lombardia nella prima metà del sec. XVIII, in <Miscellanea di storia italiana>, to. 53, III serie, vol. 22, Torino, 1924. [13]
Pace di Utrecht e trattato di Rastadt del 1713-1714. [14]
Lo stato milanese ebbe vari cambiamenti di territorio attraverso
i due secoli e mezzo di cui ci occupiamo. Diremo solo brevemente
che sotto gli Sforza lo stato milanese aveva il nome di "Ducato
di Milano". La dizione "Stato di Milano" venne in uso con la fine
degli Sforza, con Carlo V, e fu usata tra il 1535 e il 1748: la
parola "Ducato" servì allora a designare una vasta, ma limitata
zona vicina a Milano corrispondente pressappoco alla sua diocesi.
("Ducatus complectitur loca illa, quibus comitatus Mediolani antiquitus
constabat, antequam Johannes Galeatius ducis titulo insigneretur":
cfr A. VISCONTI, L’amministrazione
cit, p. 127 che riporta parole di P. Verri). Si presentava quindi
come un’aggregazione di città e rispettivi contadi (9 province:
Milano, Pavia, Lodi, Cremona, Como, Novara, Tortona, Vigevano,
Alessandria) e "terre separate" con Milano capitale dello stato.
Dal 1749 con la pace di Aquisgrana lo stato milanese si chiamò
"Lombardia austriaca" e s’intese quell’insieme di territori comprensivi
non solo dello Stato di Milano (nel 1757 aveva 6 province) ma
anche dei Ducati di Mantova e di Parma e Piacenza. La Lombardia
Austriaca terminò nel 1796 con l’arrivo dei Francesi. Nei documenti
legislativi tuttavia si parla ancora di "Stato di Milano" anche
dopo il 1749. Per una descrizione puntuale delle terre e province
appartenenti allo stato dal 1535 al 1749 cfr. Le
istituzioni storiche cit., n. 224 (Stato di Milano) e n.
147 (Lombardia Austriaca) e A. VISCONTI, L’amministrazione
cit., p. 149-150 che danno una differente descrizione delle
province. [15]
Le Constitutiones dominii Mediolanensis
dette Novae Constitutiones,
legge fondamentale dello Stato di Milano, sono una rielaborazione
del diritto ducale Visconteo-Sforzesco effettuata da una commissione
di senatori, illustri giuristi locali, nominata nel 1529 da Francesco
II Sforza (che morì nel 1535 prima del compimento dell’opera)
e riconfermata da Carlo V che pose sull’opera prefazione e nome.
Tale codice fu promulgato a Milano con la pragmatica del 27 agosto
1541 e lì, e nello stesso anno, edito "per Vincentium Meda, Calusci
impensa". Per tutte le notizie riguardanti i nomi dei membri della
commissione, nonché il disegno, la lingua, le 12 edizioni e altro
di questo corpo di leggi che riuscì a durare fino alla caduta
del vecchio regime nel 1796 (con l’eccezione di un intervallo
dal 1786 al 1791 durante Giuseppe II che le abrogò), cfr. A. VISCONTI
(La pubblica amministrazione
cit., pp. 5-31). [16]
In alcuni casi non siamo riusciti a trovare notizie esaurienti
su alcuni uffici né direttamente (dai documenti stessi), né indirettamente
(da testi sull’argomento): sono i casi dell’ufficio della zecca
o di quello della revisione dei conti che rimangono senza spiegazioni
... [17]
Ad esempio sulla coltivazione del riso lontano dalle città per
motivi igienici avrebbe dovuto legiferare solo il magistrato della
sanità e non quello straordinario come invece spesso avveniva. [18]
I patrizi cittadini avevano un monopolio vero e proprio nella
partecipazione alle cariche pubbliche maggiori. [19]
Come funzionario di polizia era affiancato da un luogotenente
con tre bargelli e ciascuno aveva almeno dodici sgherri; come
magistrato era affiancato da un vicario laureato in diritto civile
e penale. [20]
Le Novae Constitutiones,
libro I, tit. De officio capitanei
iustitiae, et causarum autem
civilium (come organo giusdicente, ma come magistrato di
polizia esisteva già da tempo). [21]
La congregazione aveva alle sue dipendenze un sindaco (di solito
uno dei più accreditati causidici della città), un cancelliere
(notaio causidico collegiato), un ragionato esperto in libri contabili
e imposte. [22]
Fondato nel 1593 (il ragionato generale del Banco G. A. Zerbi
nel suo Discorso in forma di dialogo
intorno al Banco di S. Ambrosio della città di Milano,
Milano, Pandolfo Malatesta, 1599, parla della sua erezione oltre
che delle monete e del cambio che fa il Banco), fu regolamentato
dagli statuti del 1601 (Delle leggi,
contratti e governo del Banco Santo Ambrosio della città di Milano,
Milano, Pandolfo Malatesta), che precisarono i compiti degli uffici
a capo del Banco. La congregazione fu composta da 10 governatori:
il vicario di provvisione, il regio luogotenente, un dottore collegiato
(il pro-vicario), due membri del tribunale di provvisione, due
del corpo dei decurioni, due della congregazione del patrimonio
e un esperto di questioni commerciali e contabilità. I governatori
membri di organi (tribunale di provvisione e congregazione del
patrimonio) rimanevano in carica per il tempo previsto dall’ufficio
a cui appartenevano ed erano eletti da quello. I decurioni, il
dottore collegiato e l’esperto erano eletti dal consiglio generale
(organo amministrativo civico) e la durata del loro incarico era
di quattro anni. Cfr. A. COVA, Il
Banco di S. Ambrogio nell’economia milanese dei secoli XVII e
XVIII, Milano, Giuffrè, 1972. [23]
Impresa della dogana di Milano e suo ducato, reddito del censo
e reddito ricavato "dall’arbitrio dal cinque al sette". Cfr. Le
istituzioni storiche cit., p. 120. [24]
Il Monte di S. Teresa fu istituito dalla sovrana Maria Teresa
(dispaccio del 28 gennaio 1753) nel suo progetto di riforma della
pubblica amministrazione per sollevarla dai debiti ereditati dalla
precedente amministrazione spagnola. Si adottò il provvedimento
di concentrare in un unico Monte tutti i debiti della regia camera.
Il Monte poteva usufruire del gettito del dazio del bollino (dazio
sulla vendita del vino al minuto) e di una parte degli introiti
dovuti dagli appaltatori della privativa del sale. La congregazione
che era preposta alla gestione del Monte era composta da un prefetto
e da dodici delegati. Il Monte di S. Teresa, ormai unico istituto
di credito pubblico dello stato, durò fino all’arrivo dei Francesi,
dopo aver assorbito tutti gli altri istituti gradualmente (nel
1786 inglobò anche il Banco di S. Ambrogio). [25]
Era composta da otto membri oltre al vicario di provvisione e
al luogotenente regio come rappresentante del governo: due dottori
collegiati e sei patrizi. I dottori dovevano essere dei sessanta
o essere stati vicari, i sei patrizi dovevano essere di cappa
e spada, decurioni o essere stati membri del tribunale di provvisione.
Sulla base di liste presentate dal consiglio generale erano eletti
dal governatore; ogni due anni la congregazione era rinnovata
per metà. [26]
Per esempio, erano di competenza dei conservatori del patrimonio
le cause in materia di estimi che nascevano tra le corporazioni. [27]
Fu composta da 16 membri: dal "vicario di provvisione, e dal tenente
regio pro tempore, da due dottori di collegio, da quattro decurioni,
da quattro estimati non decurioni [proprietari], da due sindaci
di città, e due sindaci del ducato". Cfr. il decreto della Giunta
del censimento del 10 febbraio 1758 non posseduto dalla nostra
raccolta. I sindaci sono vitalizi, i dottori e i decurioni sono
eletti dal governo su nomina del consiglio generale, gli estimati
sono eletti dal governo su nomina dei deputati delle pievi. [28]
Abbiamo messo col punto interrogativo l’attribuzione dell’atto
alla congregazione dello stato per quelle gride emanate dalla
"congregazione de’ signori oratori delle città e sindaci generali
del ducato, e provincie dello stato" che non hanno tuttavia la
sottoscrizione del presidente della congregazione dello stato,
il vicario di provvisione. [29]
L’irrazionalità del sistema tributario vigente aveva diviso i
beni posseduti dai sudditi in beni civili – sia mobili che immobili
posseduti dai cittadini – e beni rurali – quelli posseduti dagli
abitanti dei contadi con una ripartizione di oneri che privilegiava
le città e i loro ceti patrizi, a danno dei contadi vessati da
imposizioni fiscali esagerate. L’obbligo di pagare i carichi anche
sopra le terre non coltivate deriva dal fatto che le tasse erano
tali che era più conveniente lasciare le terre incolte: vedi ad
esempio la grida del 1 settembre 1683 del conte di Melgar, citata
dal VISCONTI, (L’amministrazione
cit., p. 131). Quando Carlo V ordinò al governatore la compilazione
di un estimo per il riordino del sistema tributario al fine di
ottenere una ripartizione più equa della tassazione eguagliando
i cittadini ai rurali, la novità mise in forte allarme le città
privilegiate e di conseguenza i contadi. [30]
Era composta da diciotto membri: un oratore per ciascuna delle
nove città capoluogo di provincia ed altrettanti sindaci per i
rispettivi contadi. Le cariche ogni anno venivano riconfermate
quasi automaticamente. [31]
Erano composte da un prefetto, al posto del vicario di provvisione,
e di un numero variabile di assessori, scelti dal governo e che
duravano in carica sei anni con cambiamenti di quattro ogni tre
anni (per Milano, Mantova e Cremona) e di tre nelle altre province.
Gli aspiranti alle cariche dovevano dimostrare di possedere almeno
2000 scudi d’estimo e non avere né liti né debiti con lo stato.
Le congregazioni municipali di Milano, Mantova e Cremona avevano
nove assessori, sei dei quali (compreso il prefetto) dovevano
essere patrizi e tre scelti tra gli estimati. [32]
Ma in una grida del 30 aprile 1796 si parla ancora di vicario
di provvisione per Milano. [33]
Cfr. F. GIOVANNELLI ONIDA – E. MARINAI, Gride
dei conservatori della sanità dello Stato di Milano (periodo del
predominio spagnolo), Napoli, ESI, 2001, CD Rom + Manuale. [34]
Una notizia che ci è data come curiosa dal VISCONTI (L’amministrazione
cit., p. 287) è quella delle preghiere che all’inizio e alla fine
dei lavori delle riunioni dei magistrati venivano recitate per
invocare l’aiuto di Dio e della Vergine: d’altra parte ricordiamo
che anche il tribunale di provvisione si riuniva tutte le mattine
non festive dopo aver assistito alla S. Messa. [35]
Furono aboliti il Magistrato Camerale, la commissione ecclesiastica,
il tribunale della sanità e la congregazione di stato. Rimasero
solo l’intendenza delle finanze e la camera dei conti. [36] Fu
composto da un presidente e da sette consiglieri. Sul numero dei
dipartimenti non trovo accordo tra VISCONTI (L’amministrazione
cit., p. 66 e segg.) e ARESE (Le
supreme cariche del ducato
di Milano e della Lombardia austriaca cit., pp. 545-546
): per l’uno i dipartimenti erano undici, per l’altro sei o sette.
Per VISCONTI: I. Competenze diplomatiche, d’araldica, di confini
etc.; II. Affari ecclesiastici, educazione pubblica, scuole, Belle
Arti, censura etc. (in realtà a questo dipartimento rimasero solo
le Belle arti); III. Commercio, arti, industrie, manifatture,
pesi e misure, fiere e mercati, miniere, società patriottica,
sorveglianza sull’annona e sulle vettovaglie, caccia e agricoltura
etc.; IV. Acque, strade, boschi; V. In ambito finanziario e contabile
redenzione delle regalie, tasse, etc.; VI. Materie di censo, sanità,
polizia etc.; VII. Posta, zecca, monti di pietà dello stato, lotto,
teatri; VIII; IX; X. Vigilanza sulle commissioni ecclesiastiche,
opere pie, monasteri e studi (L’Università di Pavia ebbe una moderna
biblioteca e strumenti scientifici, la biblioteca di Brera, costituita
sul fondo ex-gesuitico, fu aperta al pubblico con un’adeguata
sistemazione di cataloghi, inoltre furono istituite borse di studio
e molto altro ancora); XI. Istituzioni di beneficenza, monti di
pietà, incurabili, orfanotrofi, scuole normali (elementari). [37]
Vi partecipavano sicuramente il grancancelliere, i presidenti
del senato e dei magistrati camerali, inizialmente anche il tesoriere
generale e il capitano di giustizia, poi autorità militari come
il castellano di Milano etc. [38]
Composta dal grancancelliere, da un senatore o da un questore
forestiero, e da un avvocato fiscale. [39]
Composta dal grancancelliere, da un senatore e dai presidenti
del senato e dei magistrati ordinario e straordinario (dopo il
1749 dal solo presidente del Magistrato Camerale), dal generale
comandante e da uno o due avvocati fiscali, talvolta da qualche
reggente. [40]
La famiglia illustre dei Tasso fino dai primi del '500
ebbe la concessione dei servizi postali: furono organizzatori
della rete postale in vari stati e Ruggero e Simone ebbero la
carica di corriere maggiore in Lombardia. [41]
Grida del 14 giugno del 1599 del governatore Juan Fernández de
Velasco citata dal VISCONTI, (L’amministrazione
cit., p. 86). [42]
Il corriere maggiore era civilmente responsabile dei danni commessi
dai suoi dipendenti. Aveva introiti provenienti dalle decime pagate
dagli altri corrieri sulle lettere consegnate e aveva potere giudicante
sulle vertenze che sorgevano fra gli addetti al servizio, erano
a suo carico il pagamento dei salari ai luogotenenti, che facevano
le sue veci, ai cancellieri, che svolgevano il servizio d’ufficio
controllando lettere, pacchi, valori di cui prendevano nota prima
di consegnarli ai corrieri, ai maestri di posta. Questi ultimi,
nominati dal corriere maggiore, avevano alle loro dipendenze alcuni
postiglioni, ricevevano, smistavano, distribuivano la posta, fornivano
i cavalli ai corrieri che avevano l’obbligo di alloggiare nelle
loro case o osterie e fare lì il cambio. Avevano insegne distintive:
il mastro di posta la cornetta e la pelle di tasso, i corrieri
sulla spalla sinistra lo stemma del sovrano. [43] L’amministrazione
cit., p. 86. [44]
Cfr. C. MAGNI, Il tramonto del feudo
lombardo, Milano, Giuffè, 1937 per una puntuale ed esauriente
spiegazione dei connotati del feudo in età moderna e cfr. E. CASANOVA,
Dizionario feudale delle province
componenti l’antico Stato di Milano all’epoca della cessazione
del sistema feudale, Milano, 1930 per una descrizione dei
feudi e della successione in essi delle varie famiglie signorili. [45]
Solo al sovrano spettava il diritto di concedere terre in feudo,
e a nessun altro organo. La delega al governatore era fatta con
carattere di eccezionalità e con mandato speciale ed espresso. [46]
C’era una tariffa per la vendita dei feudi commisurata al numero
dei fuochi più un capitale commisurato alle rendite del feudo,
alle regalie annesse etc. [47]
Gli Sforza e i loro successori spagnoli e austriaci non fecero
che reinfeudare terre già infeudate: per avere la certezza di
non essere più soggette al feudo le terre avrebbero dovuto essere
dichiarate "demaniali", avrebbero dovuto cioè redimere la propria
libertà acquistandola dal Fisco con una somma pari, o quasi, a
quella che avrebbe pagato un privato per divenirne il feudatario,
oltre a continuare a versare al Fisco diritti fissi. [48]
Cfr. Novae Constitutiones,
tit. De feudis. [49]
Comunque in taluni casi e come eccezione il re poteva anche consentire
l’esercizio pieno della giurisdizione civile e criminale e in
quei casi il potere del signore era particolarmente pesante. [50]
L’ultima raccolta è quella del 1743 (Milano, Giuseppe Richino
Malatesta) con le Annotazioni di Pio Antonio Magni Fossati che
riunisce gli ordini dal 1490 al 1743. [51]
Su questo cfr. P. DEL GIUDICE, Storia
del diritto pubblico e delle fonti, in A. PERTILE, Storia
del diritto italiano, Torino, UTET, 1898, vol. II, pt.
II, p. 96. [52]
L’imperatore aveva nominato il presidente del senato e un avvocato
fiscale, delegando poi al governatore la nomina d’altri cinque
o sei senatori. [53]
I nuovi confini sarebbero passati attraverso la metà del lago
Maggiore e dei fiumi Ticino e Po. Fu ceduto il Vigevanasco, parte
del Pavese, l’Oltrepò Pavese, Piacenza, il Piacentino, l’alto
Novarese e i diritti sul marchesato di Finale. [54]
Creata dal governatore, con la presidenza del presidente del senato,
ebbe maggiori poteri. Fu costituita da membri nominati dal presidente
che affiancarono i tre commissari nominati da Vienna. [55]
Ricordo che con il trattato di Rastadt del 1714, all’Austria erano
passati i possessi italiani di Milano e Napoli. [56]
Vedi il dispaccio di Maria Teresa del 19 luglio 1749 pubblicato
con l’editto della giunta del censimento del 16 dicembre 1749. [57]
La giunta era composta da un presidente, da un questore del magistrato
ordinario, da un contabile e da uno scrivano. [58]
Cfr. C. MAGNI. Il tramonto
cit., p. 89. Le ristrettezze dell’erario in certi periodi furono
tali che nel 1647 fu perfino venduto il Giardino del Castello,
per fortuna col patto di redenzione. [59]
Cfr. C. MAGNI, Il tramonto
cit., p. 282 e segg. [60]
Essendo la giunta suddetta generalmente sconosciuta, credo sia
opportuno riportarne l’esatta composizione così come direttamente
indicata dalla sovrana: "sotto il presidio del nostro ministro
plenipotenziario il conte di Firmian; vogliamo sia composta del
consultore del governo don Paolo de Rydo de la Sylva, del presidente
camerale conte don Stefano Gaetano Crivelli, del senatore don
Nicola Pecci, del consigliere don Domenico baron de Montani, e
del questore don Galeazzo Arconati, i quali due ultimi destiniamo
promiscuamente relatori di tali cause, ordinando, che questa giunta
dovrà essere assistita dall’avvocato fiscale don Francesco Fenaroli
...". Vedi l’editto dell’amministratore di governo del 25 febbraio
1766 che pubblica il cesareo dispaccio di Maria Teresa del 16
gennaio dello stesso anno. [61]
Composta di sei membri: un presidente, un consigliere con funzione
anche di vicepresidente, quattro capi direttori con i necessari
subalterni di cancelleria e ragioneria. I 39 luoghi pii di Milano
furono concentrati nei cinque principali (Quattro Marie, Misericordia,
Carità, Divinità e Loreto) e furono affidati ad uno dei membri
della giunta. [62]
Le principali incombenze che rimanevano alla giunta economale
furono la soppressione delle confraternite inutili, la riorganizzazione
delle parrocchie e il trasporto dei cimiteri fuori della città,
nonché la progettazione di un nuovo seminario generale. [63]
Cfr. per l’argomento M. G. BASCAPÈ, Oltre
la giunta delle pie fondazione, Giuseppe II e la riforma del sistema
assistenziale della Lombardia austriaca. Prime ricerche (1784-1786),
in <Annali di storia moderna e contemporanea>, 1995, pp.
201 e segg. [64]
Cfr. F. ARESE, Le supreme cariche
del ducato di Milano e della Lombardia austriaca cit.,
per i nomi delle persone che composero le giunte di governo,
pp. 548 e segg. [65]
Il piano può essere visto nella raccolta preceduto da un rescritto
di Maria Teresa del 23 giugno dello stesso anno. La giunta era
composta da due senatori di nomina regia, dal regio economo, da
due avvocati fiscali e da un luogotenente regio sotto la direzione
del ministro plenipotenziario. Per la giunta economale cfr. U.
PETRONIO, Il senato di Milano,
Milano, Giuffè, 1972, p. 326. [66]
In realtà questa carica fu istituita alla fine del XV secolo durante
il periodo di dominio francese su Milano. [67]
Per un elenco dei grancancellieri cfr. anche F. BELLATI, Serie
dei governatori di Milano dall’anno 1535 al 1776 con istoriche
annotazioni, con in appendice Il
catalogo dei gran cancellieri e de’ consultori di governo,
Milano, G. R. Malatesta, 1776. [68]
Le nomine continuarono fino al 1753: Beltrame Cristiani fu insieme
grancancelliere e ministro plenipotenziario negli anni 1753-1758.
Alla sua morte avvenuta nel 1758, fu nominato un ministro plenipotenziario
e la carica di grancancelliere tornò al presidente del senato
ma solo in via onorifica. [69]
Le competenze del magistrato delle entrate ordinarie riguardavano
l’amministrazione di tutte le entrate dello stato, dando il parere
anche sui provvedimenti finanziari promossi dal governatore quando
(di solito in caso di guerra) le casse dell’erario erano esauste
e bisognose di nuovi introiti. In particolare il magistrato si
occupava della materia daziaria, dei dazi veri e propri – come
i pedaggi sui ponti – delle privative chiamate anch’esse dazi,
come l’acquavite e il tabacco e dei capitolati d’appalto che erano
stipulati con gli impresari delle svariate regalie. In generale
si occupava dello svolgimento di una politica economica diretta
a salvaguardare le industrie o manifatture locali (nel periodo
spagnolo erano puniti coloro che volevano portare all’estero un’industria
locale, premiati con scarichi fiscali i forestieri che ne portavano
una in Lombardia) e a proteggere l’agricoltura (la questione dell’allevamento
delle pecore bandite per il loro "morso velenoso" che danneggiava
le coltivazioni è oggetto di numerose gride, così quella delle
capre e dei maiali che danneggiavano i boschi, etc.). Inoltre
erano di sua competenza, in collaborazione col giudice delle monete,
la materia monetaria – vigilanza sulle monete alterate, su quelle
"erose" o false -, il servizio postale – l’organizzazione postale
richiedeva protezione dai privati che usurpavano i distintivi
dei postini, dai soldati che compivano atti violenti, dai soprintendenti
alle porte cittadine e ai porti dei fiumi che pretendevano un
dazio non dovuto, etc. Si occupava dell’appalto delle forniture
di pane di munizione all’esercito e di "legna da fuoco" ai tribunali,
dei mercati sulla cui apertura doveva dare il parere. Le competenze
del magistrato riguardavano anche in campo finanziario la tutela
degli interessi della comunità attuando, ad esempio, la redenzione
di tutti i redditi che le comunità pagavano ai reddituari. [70]
Le competenze del magistrato delle entrate straordinarie
riguardavano sostanzialmente tre ambiti: il primo relativo alle
questioni feudali (cause, devoluzioni), alle notificazioni dipendenti
da confische o da condanne pecuniarie, alle notificazioni ed esecuzioni
di tutte le eredità vacanti per lo stato; il secondo relativo
alle questioni riguardanti le acque – migliorie, manutenzioni,
pesca, navigabilità, polizia delle acque (guardie chiamate "campari",
i "capitani della darsena" per la vigilanza sui fiumi con competenza
giudiziale nello stato), cause giudiziarie (per esempio come appello
sui giudicati dei capitani della darsena) –; il terzo, dal 1563,
molto rilevante per il numero di gride emanate, riguardante il
campo economico in materia annonaria. A questo proposito ricordiamo
che la politica economica dei tempi, già nel XVII secolo criticata,
si basava sul mantenimento dell’abbondanza: i generi di prima
necessità erano trattenuti nello stato e il divieto di esportazione
colpiva le biade in genere, le carni, le uova, il burro e anche
le sete. Il timore popolare dei rincari dei prezzi e il desiderio
di maggiori guadagni dei produttori causava tutta una serie di
divieti per combattere l’"estrazione" delle merci e il contrabbando,
soprattutto del grano. Il magistrato era quindi impegnato nella
concessione di licenze per ogni trasporto e nella prescrizione
di "invenzioni" (perquisizioni) in case, buche, pozzi. Altra materia
era quella della coltivazione del riso e dell’obbligatoria distanza
delle risaie dalle città (3 o 4 miglia), dai borghi (700 braccia),
dalle strade regali (200 braccia) etc. imposta per motivi igienici:
è un caso di conflitto di competenza con la magistratura della
sanità, o, in alcuni casi, di collaborazione tra magistrature
quando il magistrato straordinario agisce sopra consulta della
sanità (grida dell’8 gennaio 1694). [71]
Secondo il VISCONTI (L’amministrazione
cit., p. 222-223) il motivo della nuova decisione era stato essenzialmente
politico, desiderando il patriziato avere un maggior numero di
seggi e retribuzioni a disposizione. L’opinione non è ritenuta
valida da F. ARESE, Le supreme cariche
cit., p. 71, nota 52. [72]
Ogni magistrato è composto di un presidente e sei questori o maestri
(tre togati e tre di cappa corta), ma il seggio del presidente
del magistrato straordinario, come dicevamo, era riservato agli
spagnoli. [73]
Fu composto da un presidente e da sei questori togati, due dei
quali forestieri. [74]
Si compose di un presidente e 10 consiglieri nessuno dei quali
togato o proveniente dal vecchio magistrato camerale. Fu ripartito
in tre sezioni: quattro consiglieri per l’amministrazione di dazi
e regalie, tre per le questioni del censo, tre per il commercio
e l’annona. [75]
L’imposizione della mezz’annata, istituita nel 1631 da Filippo
IV per bisogni straordinari, colpiva chiunque possedesse cariche
o uffici concessi dal re e consisteva nel pagamento della metà
della rendita del primo anno in cui occupasse il posto. Nel 1749
un piano aboliva la "gravezza" per le cariche annuali e biennali,
riservandola solo per le cariche perpetue. Il pagamento della
tassa era dovuto anche al momento dell’acquisto di un feudo o
al momento della successione in esso. [76]
Era costituito da sei membri: un commissario, un tesoriere, un
cancelliere, un contrascrittore, due ingegneri. [77]
Cfr. le Novae Constitutiones,
libro I, tit. De officio iudicis
datiorum. [78]
Per esempio, numerose erano le rimostranze dei sudditi nei confronti
dei daziari per gli abusi a cui erano soggetti: sequestri di bestie
e di cose, perquisizioni ingiustificate, richieste pressanti etc.
Comunque, anche i daziari sembra avessero difficoltà nel riscuotere
visto che i reggenti delle città e i soldati delle fortezze dovevano
collaborare e prestare loro aiuto! [79]
I contrabbandieri, per esempio, potevano essere trattenuti, ma
non giudicati da altre autorità. [80]
Cfr. le Novae Constitutiones,
libro I, tit. De monetis et iudice
monetarum. [81]
Giovanni Luca Pallavicini fu ministro plenipotenziario nel 1744
e nel 1746, Beltrame Cristiani assommò le cariche di grancancelliere
e ministro plenipotenziario negli anni 1753-1758. Alla sua morte
nel 1758 fu nominato un altro ministro plenipotenziario che assorbì
le funzioni di grancancelliere. Nel 1759 la carica autonoma di
grancancelliere fu data al presidente del senato in via onorifica
e poi soppressa definitivamente. [82]
Novae Constitutiones, libro
I, tit. De senatoribus, etc. [83]
Per la composizione del senato sotto Francesco II Sforza, diviso
in diverse categorie (5 senatori prelati, 9 senatori militi, 13
senatori togati, senatori pretori o podestà e senatori professori)
cfr. F. ARESE, Le supreme cariche
del ducato di Milano. Da Francesco
II Sforza a Filippo V cit., pp. 67 e segg.. Di queste categorie
sopravviverà solo quella dei senatori togati. Quindi, sotto Filippo
II troviamo il senato composto da quindici membri, un presidente
e 14 senatori, tutti patrizi di età non inferiore a trent’anni,
nominati a vita, provenienti dal collegio dei giureconsulti. In
caso di morte venivano scelti dai senatori stessi tre nomi fra
cui il sovrano nominava il prescelto. Solo il nome del presidente
non era fatto dai senatori ma direttamente dal re. Dalle Novae
Constitutiones risulta che almeno tre senatori dovessero
essere spagnoli, anche se spesso il numero era superiore e da
qui le proteste del patriziato milanese. Nel 1749 l’organico del
senato cambiò ancora e fu fissato a un presidente e dieci senatori,
due dei quali inviati nelle preture di Cremona e Pavia. I senatori
godevano di una posizione di grande prestigio: avevano particolari
privilegi, tra cui l’immunità da tasse e oneri, erano inamovibili,
avevano per le loro cause civili giudici espressamente delegati,
avevano il titolo di "magnifico", mentre i numerosi e sceltissimi
funzionari che li appoggiavano quello di "egregio". Il senato
aveva una folta schiera di collaboratori, un corpo sceltissimo
di funzionari: segretari, cancellieri, coadiutori, scritturali,
e anche un tesoriere, un ricevitore delle proroghe, un custode
dell’archivio. Cfr. anche l’ampio studio di U. PETRONIO, Il
senato cit. per l’evoluzione delle funzioni di quest’organo. [84]
Cfr. A. VISCONTI, L’amministrazione
cit., p. 177 e segg. [85]
"Registretur et executioni mittatur", "L (lectis o lectum)" o
altre formule. [86]
Il senato fu diviso in tre sezioni, civile, criminale, camerale,
ciascuna composta da quattro senatori. [87]
La lettera è integralmente riportata dal VISCONTI (L’amministrazione
cit., pp. 215-16). [88]
La carica, vitalizia malgrado le proteste, nacque come collegiale
nel ducato, mentre negli altri contadi il sindaco era unico. [89]
Gli anziani non facevano parte del ceto dei funzionari, ma erano
cittadini eletti in ogni parrocchia con quel titolo. Gli anziani
collaboravano con varie magistrature svolgendo vari compiti e
ricevendo come ricompensa l’esenzione dalle tasse sulle loro botteghe. [90]
Per più esaurienti notizie sui marchesati cfr. E. BRANCHi, Storia
della Lunigiana feudale, Pistoia, 1887 (rist. anast. Bologna,
Forni, 1971). [91]
Il supremo consiglio d’economia era composto da un presidente
e da nove consiglieri di spada non togati di nomina regia e a
vita (due delegati per la ferma generale, tre per le materie commerciali,
tre per le materie censuarie, un delegato per Mantova) con alle
loro dipendenze un segretario, due ragionati, un notaio anch’essi
di nomina regia. Nel 1766 si pubblicarono istruzioni (una specie
di regolamento) per il funzionamento di questo nuovo dicastero. [92] Interessante
l’aspetto dell’incremento della produzione della lana che significava
incremento di quell’allevamento delle pecore tanto osteggiato
durante il governo spagnolo! [93]
L’ufficio delle tratte aveva come scopo la libertà delle contrattazioni
dei prodotti del suolo per ampliarne il commercio. [94]
I capi di piazza nelle cause giudicate dagli abati e consoli delle
corporazioni funzionavano come giudici di appello e soprintendevano
ai cambi e ai fallimenti. [95]
Libro V De officio vicarii provvisionum.
Per l’elezione dei dodici di provvisione, dai sessanta decurioni
se ne estraevano diciotto, tre per porta, il principe ne sceglieva
dieci, fra cui un "fisico" (medico). I dieci, con due persone
scelte dal collegio dei giurisperiti fra i componenti il collegio,
formavano il tribunale. Per la carica di luogotenente alla provvisione
i sessanta decurioni presentavano al duca i nomi di sei giurisperiti
tratti dal collegio, fra i quali il principe ne nominava uno che
l’anno seguente avrebbe direttamente rivestito la carica di vicario.
L’ufficio della provvisione aveva durata annuale. Queste disposizioni
rimasero in vigore fino all’anno 1786 e in parte fino al 1796
con molte varianti. Già nel 1784 con la riforma delle congregazioni
municipali di Giuseppe II, si ammisero a far parte delle magistrature
cittadine anche i semplici cittadini, non solo i nobili. Il tribunale
mutò composizione: pro-vicario, giudice delle strade, due dottori
collegiati, quattro decurioni, quatto patrizi estimati, sei cittadini
estimati. Duravano in carica quattro anni, scadendone metà ogni
biennio, tranne il pro-vicario che diventava vicario l’anno successivo.
Nel 1786 il vicario si chiamò prefetto e regio delegato. [96]
Legna da fuoco e carbone, legnami da opera, cera e sego, fieno
e paglia, cuoi, calcina, misure per stadere etc. [97]
Le pene erano pecuniarie (multe) o corporali (fustigazioni, battiture,
reclusioni etc.). [98]
Due procuratori, un "cancelliere delle gravezze straordinarie",
un tesoriere, un ragionato generale, un altro ragionato, un "notaro
del criminale", un cappellano, sei portieri detti bianchi e rossi,
sei trombetti pubblici, quattro "malossari dei grani" (pubblici
sensali), un custode dell’edificio, un custode del mercato dei
grani, uno "sfrancatore di corami" (marcatori delle pelli nuove),
trentasei "ufficiali delle cobbie" che avevano funzioni ispettive
per le frodi in materia annonaria in tutto il ducato (ventiquattro
dipendevano dal tribunale di provvisione e dodici dal giudice
delle vettovaglie), un "barigello detto massarolo", due assessori
al bimestre col compito di dirimere le controversie di poca importanza.
Cfr. per una più dettagliata ed interessante esposizione delle
funzioni di questi ufficiali Le
istituzioni storiche del territorio lombardo XIV-XIX secolo
cit., p. 156. [99]
L’ufficio era composto oltre che dal giudice, da un cancelliere,
un cassiere, un capomastro, tre ingegneri e uno "scrittore" per
le pratiche d’ufficio. A Milano si aveva un commissario ogni porta,
un portiere, un fante. Scaduti, erano sindacati insieme col vicario
di provvisione e il giudice delle vettovaglie. La composizione
dell’ufficio la ritroviamo ribadita nel dispaccio reale del 13
febbraio 1777. Cfr. A. VISCONTI, L’amministrazione
cit., pp. 348 e 357. [100]
Novae Constitutiones, libro
IV, tit. De viis publicis muniendis
et pontibus manutenendis. [101]
La prima di queste gride del duca di Terranova (citata da A. VISCONTI,
La pubblica amministrazione
cit., p. 351 e segg.) è del 24 aprile 1590, rinnovata dal principe
di Ligne l’11 maggio 1675, da noi non possedute. [102]
Le spese di manutenzione erano a carico delle terre rurali in
proporzione del censo del sale, che non veniva pagato dalle città.
Le proteste per questa situazione ci furono, ma senza esito. [103]
Secondo il diritto municipale di Milano, era vietato al giudice
delle strade di occuparsi di strade poste al di là del Redefossi,
eccettuate le strade maestre, ma molto spesso il senato con lettere
autorizzava il giudice ad occuparsi di strade pubbliche non maestre. [104]
Solo nel 1779 il governo austriaco assunse sopra di sé il carico
della manutenzione delle strade. [105]
Inizialmente con gli statuti cittadini si distinguevano le vie
pubbliche dalle private e vicinali. Nel 1569 la spesa per le strade
pubbliche era fatta per 2\3 dai frontisti, per tre braccia dalla
casa, e per 1\3 dalla comunità. Come dicevamo, le strade provinciali
erano a carico delle comunità rurali proporzionatamente al censo
del sale. Nel 1777 si stabilì che le spese di manutenzione delle
strade provinciali fossero a carico della provincia, delle comunali
a carico dei comuni e solo la manutenzione di quelle private fosse
a carico dei proprietari. [106]
Tutti gli ufficiali del giudice delle strade, secondo gli statuti
municipali, erano obbligati a curare la pulizia delle strade e
togliere ammassi di sudiciume, specialmente nei giorni di visita
del giudice. [107]
Cfr. A. VISCONTI, L’amministrazione
cit., p. 357. [108]
Le Novae Constitutiones regolavano
l’organo nel libro V tit. De officio
vicarii provisionum. [109]
Abbiamo dieci gride emanate dal governatore con testo spagnolo
dirette ai militari o a persone che lavoravano in ambito militare
come i salnitrari; tre gride emanate dal governatore con testo
tedesco o italiano-tedesco sempre nell’ambito dei militari o dei
dazi alle porte; una sola emanata da Carlo VI con testo spagnolo
circa le esenzioni. Su questo argomento cfr. F. GIOVANNELLI ONIDA
- E. MARINAI, Gride dei Conservatori
cit., p. 25 del Manuale. [110]
Un interessante sondaggio è stato compiuto molti anni fa su due
repertori: il Catalogo della biblioteca
del Collegio degli avvocati di Firenze (a cura di G. Rocchi,
Firenze, 1890-98, voll. 2) donata alla Facoltà di giurisprudenza
di Firenze e contenente un cospicuo numero di opere antiche, e
il catalogo Antichi testi giuridici
(secoli XV-XVIII) dell’istituto di storia del diritto italiano
(a cura di G. Sapori, Milano, 1977, voll. 2). Il sondaggio rileva
la presenza a Firenze di 1180 opere di cui 96 in lingua italiana
(pari all’8%) e a Milano di 1015 opere di cui 138 in lingua italiana
(pari al 13%). A Milano la percentuale dei libri di legislazione
in italiano cresce dal 6 al 56 e al 64 per cento nei secoli XVI,
XVII, XVIII; più precisamente 47 testi legislativi su 105 (il
44%), di cui 2 su 32 (il 6%) nel Cinquecento, 14 su 25 (il 56%)
nel Seicento, 31 su 48 (il 64%) per il Settecento. Cfr. P. FIORELLI,
La lingua del diritto e dell’amministrazione
in Storia della lingua, II.
Scritto e parlato, Torino, Einaudi, 1994, p. 584. [111]
Vedi, per esempio, nel lib. I, sotto il titolo De
monetis, et iudice monetarum, molte espressioni in volgare. [112]
Vedi l’ Istruzione formata dall’illustrissimo
magistrato camerale d’ordine di sua eccellenza per norma alli
militari, che sono destinati alla cura de’ sfrosi de’ grani
del 3 luglio 1750 dove si distinguono i due tipi di reato, lo
sfroso e la contravvenzione,
dandone precisi e diversi connotati. [113]
Le gride emanate dal governatore scadevano alla fine del mandato
di quest’ultimo e potevano essere tacitamente (ma la cosa è controversa)
o espressamente confermate dal successore, sennonché "non mancando
mai di regola la conferma espressa o tacita, anche queste fonti
minori non differivano gran fatto per la validità loro dalle vere
e proprie leggi". Cfr. P. DEL GIUDICE, Storia
cit., vol. II, p. 26, E. BESTA, Grida,
in Nuovo Digesto italiano,
Torino, 1937-40, alla voce, A. VISCONTI, Sul
fondamento giuridico delle gride dei governatori spagnoli in Lombardia
(estratto dalla <Miscellanea di studi in onore di E. Verga>),
Milano, 1931. [114]
Con il nascere dei principati il diritto comune e gli statuti
locali diventano fonti subordinate rispetto agli atti emanati
dal principe o dalle sue magistrature. [115]
Le gride sono anche intitolate, oltre che bando
nel senso di <messa al bando>, anche sospensione,
revoca, rinnovazione
e in questi casi, come si diceva, si fa riferimento al contenuto
della disposizione più che alla sua forma. Le revoche in
particolare prendevano anche il nome di liberazione
e restituzione con cui si
abrogavano gli editti e le gride precedenti che operavano una
restrizione della libertà individuale e collettiva vietando spostamenti
di persone e di merci. [116]
La tipologia del documento è stata tratta dalle parole presenti
nel documento stesso, dizione espressa o sottintesa ma chiaramente
rilevabile. Si sono lasciate, quindi, anche parole generiche o
risalenti al contenuto dell’atto, di cui sopra, quando con tali
parole si faceva riferimento al documento all’interno del documento
stesso. [117]
Cfr. A. ALIANI, I regesti del gridario
della Biblioteca civica comunale di Parma (1526-1802),
Parma, Grafiche STEP, 1985, pp. 14 e ss., per una distinzione
in ambito parmense. [118]
Gli atti che portano la denominazione Avviso
(non quindi ricostruita per analogia da noi) sono 101 su 160.
[119]
Il vocabolo aveva una vasta gamma di significati e fin dall’origine
lo troviamo usato in modo multiforme. Bannum
nasce come vocabolo di origine germanica, non è usato da nessuna
fonte romana e compare solo nel medioevo: è originariamente il
comando, positivo o negativo, del sovrano, ma anche la pena in
caso di trasgressione (il banno
regio è applicato in concorso con le pene ordinarie e nel mondo
franco consisteva in una multa). Il potere di banno
era esercitato ogni qualvolta si dovevano punire comportamenti
fino ad allora non considerati illeciti o quando si verificassero
particolari situazioni pericolose per le istituzioni (falso in
monete, tumulti, evasioni fiscali, atti contro il re etc.). In
questi ultimi casi il potere di banno
si manifestava nell’espulsione del reo, in quella che ora si direbbe
"messa al bando" e così si spiegherebbe l’ambiguità di tali denominazioni.
Secondo la dottrina di diritto comune, invece, la parola deriverebbe
dal latino bandum, vessillo
imperiale, con il significato di publica
dictio, interdizione, cioè, dai pubblici uffici: quindi
nel significato sempre si oscilla tra il provvedimento, la pena
e l’espulsione. Cfr. D. CAVALCA, Il
bando nella prassi e nella dottrina giuridica medievale,
Milano, Giuffrè, 1978, p. 17 e segg. [120]
Sono stati quindi chiamati "bandi", come ricostruzione nostra,
quegli atti del governatore che non ci sembrava avessero importanza
di editto. [121]
La parola crida fu usata
già nel medioevo per indicare le pubblicazioni di ordini o di
atti fatti per voce del banditore, perciò crida fu sinonimo di
pubblico banno. La parola
fu usata sia per indicare le pubblicazioni in occasione di alienazioni
di beni immobili allo scopo di rendere i beni da alienarsi liberi
da qualsiasi diritto gravante su di essi, sia, soprattutto nello
Stato di Milano ma anche a Piacenza e a Modena, per indicare quelle
norme legislative che preferibilmente venivano pubblicate tramite
banditore; in seguito fu usata per indicare le norme stesse, divenendo
sinonimo di proclama, editto.
Per questo cfr. E. BESTA, Grida,
in Nuovo Digesto italiano,
Torino, 1937-40, alla voce. [122]
L’editto qui mantiene il primitivo significato (diritto romano)
di provvedimento reso noto al pubblico mediante la pubblicazione
orale (ex-dicere) ed ha quindi
conservato quella accezione di proclama, manifesto, che lo rende
quasi un sinonimo di grida, bando. [123]
Eccezionalmente si trovano anche gride generali contenute in un
solo manifesto molto grande. [124]
Ai gentiluomini designati alla soprintendenza alle porte venivano
date istruzioni in modo gentilissimo, ma non meno risoluto: "Per
tutto il giorno abasso scritto saranno contenti l’infrascritti
signori ..." e in fine la minaccia della pena in caso di renitenza. [125]
La denominazione Istruzione
figura senza nostra ricostruzione 46 volte su 65, la denominazione
Regola 7 volte su 8. [126]
Vedi la circolare del 12 febbraio 1779. [127]
Cfr. S. BATTAGLIA, Grande dizionario
della lingua italiana, Torino, UTET, 1961-2002, alla voce. [128]
Cfr. S. BATTAGLIA Grande dizionario
della lingua italiana cit., che cita la I Crusca. [129]
La massa enorme di bandi, gride, parti, terminazioni, editti prodotti
da ogni stato italiano d’ancien régime costituiva un materiale
mal gestibile anche al tempo della loro emanazione. Pompeo Neri
nel 1747 di fronte al proposito di codificazione di Pietro Leopoldo,
granduca di Toscana, metteva in rilievo come la molteplicità delle
fonti rendesse problematica una unificazione normativa. Possiamo
aggiungere che la stessa legislazione principesca rischiava di
essere disattesa perché ignorata. Di qui la necessità della grida
generale che riassumesse cose già dette richiamando ordini già
emessi, che insomma consolidasse il diritto relativo ad una certa
materia. [130]
Un caso di riedizione di un bando del governatore del 14 luglio
1630 è registrato nelle Gride dei
conservatori della sanità cit. [131]
Cfr. A. VISCONTI, L’amministrazione cit.,
p. VIII.
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Firenze, 21 marzo 2008 |
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